15 settembre, 2014

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Recensione 26: "La casa delle finestre che ridono"


LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO           ITALIA  1976  106’  COLORE

REGIA: PUPI AVATI

INTERPRETI: LINO CAPOLICCHIO, FRANCESCA MARCIANO, GIANNI CAVINA, BOB TONELLI, GIULIO PIZZIRANI

EDIZIONE DVD: SI’, distribuito da 20TH CENTURY FOX


“…I MIEI COLORI…”  (dal film)

Stefano (Capolicchio), restauratore, arriva in un paesino della campagna ferrarese per curare un affresco raffigurante il martirio di San Sebastiano, opera realizzata all’interno di una chiesa e attribuita a tale Buono Legnani, pazzoide artista locale morto suicida una ventina d’anni prima, soprannominato “pittore delle agonie” per la sua abitudine di ritrarre dal vivo persone in procinto di morire. Col procedere del lavoro, Stefano si accorge ben presto che assieme al dipinto sta riportando alla luce un’inquietante verità fatta di orrori sepolti nel passato…

La prima incursione del regista bolognese nel thriller/horror (su sceneggiatura del collaudato quartetto Pupi e Antonio Avati, Gianni Cavina e…Maurizio Costanzo!) costituisce l’alternativa italiana più riuscita e convincente del decennio allo strapotere del Maestro Dario Argento, indiscusso dominatore del genere negli anni’70 sulle orme del grande pioniere Mario Bava; proprio in quanto traccia una via alternativa per il “gotico all’italiana”, –potremmo parlare qui di “gotico padano”- il film acquisisce un ulteriore motivo di interesse per i cultori del genere (tra i quali chi scrive), cui La casa dalle finestre che ridono offre la possibilità di apprezzare un valido approccio “altro” rispetto a quello argentiano, dal quale il regista di Regalo di Natale (film del 1986, a mio giudizio il miglior Avati, horror esclusi) si discosta sia dal punto di vista stilistico che tematico: alle spettacolari acrobazie della camera e al montaggio serrato tipici di Argento, Avati oppone uno stile decisamente più statico ed un ritmo –a tratti forse perfino troppo- più compassato; diverso anche l’impiego della violenza, qui molto contenuta, specie se paragonata a film come Profondo Rosso; inedita ma suggestiva e spettrale, in luogo delle lugubri città argentiane (Roma e Torino in particolare) frutto di sapienti collage, l’ambientazione nelle acquose campagne della Bassa padana, scelta, quanto ad originalità, seconda forse solo alla Lucania del Non si sevizia un paperino (1972) di Lucio Fulci, altro giallo/thriller all’italiana da recuperare. D’accordo, non mancano certi cliché del genere come le telefonate minatorie, la villa sperduta, i rumori di passi, cigolii, ecc…ma si tratta di ingredienti indispensabili che rendono il piatto ancor più saporito senza renderlo, per questo, banale. Simile a quello delle storie nere di Dario Argento è, invece, il clima morboso e allucinato che il regista riesce a costruire giocando abilmente con le paure collettive e con l’educazione cattolica tipiche della gente di campagna (di cui, per sua stessa ammissione, egli stesso è intriso), evocando così quell’atmosfera malata, irreale, oscura e ambigua che possiamo ritrovare, ad esempio, in alcuni romanzi e racconti del “Mago del Brivido” Stephen King (mi viene in mente la splendida storia autoconclusiva I figli del grano, contenuta nella raccolta A volte ritornano, oppure l’inquietante Desperation), in cui l’ignaro protagonista (o, a volte, i protagonisti) finisce nel “classico” posto sperduto ai margini del mondo, luogo in cui dietro l’iniziale, apparente “normalità” (odio questo termine, ma tant’è!) rassicurante della piccola comunità umana locale, si cela una realtà dove ogni logica viene sovvertita e dove bene e male si confondono senza che si possa più distinguerli, quasi come se ci si trovasse immersi in un microcosmo stregato e separato dal resto del Mondo da una barriera invisibile, una parallela dimensione oscura in cui le forze del Male sembrano aver corrotto tutto e tutti e dove pare che nessuno, per paura, indifferenza, omertà o complicità possa o voglia cambiare le cose; il protagonista-eroe si ritrova così completamente solo, e da solo si fa carico di risolvere la situazione, unica possibilità per uscire dalla “bolla nera” in cui è rimasto imprigionato e spezzare così la misteriosa maledizione che grava sul luogo. Lo stesso Stefano è vittima di una vera e propria “congiura di pazzi” (niente a che vedere con il celebre episodio della storia fiorentina), dove nulla è ciò che sembra e dove non ci si può fidare di nessuno: il tranquillo paesello di onesti e laboriosi provinciali ha più che il solito scheletro –conservato in formalina- nascosto nell’armadio, il Male ha occhi e orecchie dappertutto e la verità viene sistematicamente sporcata…e poi…chi ha ripulito la soffitta? Chi ha fatto sparire i corpi? Un lavoro così grande, compiuto con una perizia quasi scientifica e con tale velocità è forse un po’ troppo per due anziane signore da sole…OOOPS!...
Credo che questo tipo di situazione (o situazione-tipo), piuttosto ricorrente nell’ambito horror e non solo, rispecchi fedelmente la tradizionale diffidenza umana, per non dire ostilità, nei confronti dello sconosciuto, dell’estraneo, del “nuovo” percepito come potenziale elemento perturbante, cioè come minaccia per l’ordine costituito; un atteggiamento di chiusura che non è certo appannaggio esclusivo delle comunità rurali, come quella mostrata nel film... a tal proposito, considero emblematica e perciò meritevole di citazione la magistrale e toccante scena del pre-finale, della quale la bella colonna sonora di Amedeo Tommasi sottolinea l’impatto drammatico, in cui Stefano, ferito, fugge in paese col sidecar alla vana ricerca d’aiuto, trovando però tutte le porte chiuse, tanto quelle dei privati cittadini quanto quelle delle istituzioni; intorno a lui si fa il vuoto, neanche fosse un appestato…l’unico ad offrirgli riparo è il buon Don Orsi, il parroco della chiesa che ospita l’affresco…sorpresona finale coi fiocchi!!!
Molto buona la prova degli attori, con menzione particolare per il fido Gianni Cavina –uno degli interpreti prediletti dal regista- che, malgrado il ruolo secondario, dà comunque la paga agli altri.
Tirando le somme, La casa dalle finestre che ridono è un piccolo film (dal punto di vista del budget, non certo da quello artistico!) che si è meritatamente ritagliato un posto tra le opere di culto del genere horror (non solo italiano) ed ha, tra gli altri, il pregio di essere veramente originale grazie anche ad uno dei finali più imprevedibili e irriverenti della storia del cinema; l’atipica location e un gruppo di ottimi caratteristi hanno senz’altro contribuito al successo dell’ambiziosa missione del regista: rendere spaventosa l’innocua e accogliente campagna romagnola! Davvero imperdibile per gli appassionati! Peccato solo che in seguito Pupi Avati abbia concentrato i propri sforzi in altri ambiti cinematografici -commedia in primis- non approfondendo un discorso artistico molto interessante e tornando “sul luogo del delitto”, finora, solo altre tre volte, senza peraltro raggiungere il livello de La casa dalle finestre che ridono: nel 1983 con il buon Zeder (protagonista Gabriele Lavia), nel 1996 con L’arcano incantatore (girato in Umbria, musiche di Pino Donaggio) e, recentemente, con Il nascondiglio (2007, ambientato negli USA).

L’edizione DVD (ricercatevi quella con la custodia cartonata!) propone tra gli extra un breve documentario di 15’ circa in cui i protagonisti rievocano alcune fasi della lavorazione del film, tirando fuori dal cassetto, come avviene spesso in questi casi, alcuni gustosi aneddoti.


Francesco Vignaroli

Nessun commento:

Posta un commento