Monologo, che passione!

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Il monologo rappresenta senza ombra di dubbio il momento più alto,  intimo, spirituale e  nobile (perché spontaneo e sincero) di un testo teatrale. I grandi autori hanno sempre  risolto la problematica del personaggio che parla da solo con la tecnica del monologo interiore. In molti caso anche con i cosiddetti (a parte), ossia momenti di colloquilità del personaggio col pubblico come se quest’ultimo fosse non solo presente ma  addirittura partecipe e coprotagonista dello spettacolo stesso. Non ho bisogno di citare esempi di questi due generi di monologo, in quanto fin troppo famosi e conosciuti a memoria dalla stragrande maggioranza di chi mi legge.

Esiste poi un’altra forma di monologo, quella del one-man-show,  che per vari motivi caratterizza il teatro contemporaneo.  Vuoi per la pochezza di mezzi e l’esigenza di concentrare lo spettacolo in una dimensione necessariamente minimalista, visto che i soldi sono sempre pochi, vuoi per sintetizzare l’involucro teatrale prosciugandolo di orpelli, di aggiunte, di personaggi primari e secondari: insomma, col monologo contemporaneo inteso come forma di spettacolo diretta, immediata, di grande presa sul pubblico nonché antitetica proprio nella sua essenza spoglia ai prodotti dei media, cinema e televisione, il teatro non fa in realtà che ritornare alle origini della tragedia, cioé al canto o lamento del capro espiatorio. Che può comunque assumere ovviamente toni dissonanti, divergenti ovvero di-vertenti. Marx scrisse che la storia si presenta sempre due volte: la prima come tragedia e la seconda come farsa. Ed è così che nella tradizione del teatro tardomedievale il canto gregoriano virò in tropi, in varianti e variazioni trasferendosi dall’ambiente mistico dell’ecclesia prima al sagrato e poi alla piazza del mercato: dalla liturgia drammatica al dramma liturgico, poi alla lauda e  ai cantari e giullari dei misteri buffi,  il canto-lamento, ovvero il monologo, assunse via via toni meno drammatici e sempre più  ironici, trasgressivi,  iconoclasti, si volgarizzò e popolarizzò dando voce anche alla fame e ai sentimenti di rivolta, alla satira politica. Per questo risvolto “politico” del monologo in piazza, come scrive Eduardo ne L’arte della commedia,  tanti Arlecchini e tanti Pulcinella furono appesi ad una corda!

Mi fermo nella parte storica per arrivare al nocciolo della questione, cioè la problematica del monologo.  La quale secondo me consiste in una questione apparentemente tecnica che però nasconde un groviglio drammaturgico da cui uscire non è facile per l’Autore che spesso, anzi, non si rende neppure conto di trovarcisi dentro. Posso sintetizzare così questa problematica: perché e a chi parla l’attore che delinquia dei fatti suoi o racconta fatti di altri innalzandosi sull’altare-palcoscenico come il capro espiatorio di turno? Naturalmente si può obiettare che l’attore nel monologo “racconta” al pubblico una storia. Si può forse risolvere così semplicemente l’argomento?  Ebbene, se fosse solo una questione letteraria potremmo essere tutti d’accordo: il teatro è senz’altro una forma primigenia di narrazione, tuttavia esso non è una forma strettamente letteraria, bensì drammatica. Il narratore insomma sul palcosenico non può e non deve confondersi con  l’attore che invece è e deve restare un personaggio e  un protagonista affincé il racconto diventi appunto drammatico (e conseguentemente teatrale).

Va da sé che questa mia riflessione dovrebbe portare a concludere che un autore, un drammaturgo che intenda “teatralmente” e non “letterariamente” cimentarsi col genere del monologo debba “a monte” risovere il problema del motivo e della destinazione del suo soliloquio in scena.  Perché parla e con chi parla dunque chi recita un monologo? Non è una questione di lana caprina, possiamo infatti essere certi che, più o meno coscientemente, lo spettatore se lo chiede sempre; e se non sa rispondersi si sente in qualche modo egli stesso fuori parte, come se la quarta parete  venisse a strapparsi in un punto molto più concreto di quanto si possa pensare: la parete della credibilità catartica del dramma che consiste nel fatto che io spettatore non “ascolto” o “guardo” un attore recitare un documento o un testo letterario, ma partecipo con lui, mi immedesimo in un processo di fusione spirituale che rappresenta la scintilla da cui scaturisce la teatralità e l’essere dell’attore: un media spirituale tramite il testo con noi stessi.

Enrico Bernard

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