Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Bartoli, dall’8 al 13 gennaio 2019
Uno scenario a prima vista algido, costituito da molto metallo e con in primo piano uno schermo, si anima poco a poco di suoni tellurici, echi di battaglie, immagini di montagne immerse nelle nuvole e di rocce sulle quali appaiono simboli risalenti a un’antichità ancestrale.
La voce versatile di Marta Cuscunà, che è anche autrice del testo, anima sei personaggi – quattro corvi e due bambini – da lei mossi con abilità magistrale attraverso “fili” di diversa natura. Il ritmo dei dialoghi è serrato e coinvolge gli spettatori in un ascolto partecipe e costante, pur in presenza di una certa difficoltà dal punto di vista percettivo originata dalla presenza, in alcuni momenti, di suoni e lampi di luce faticosi da gestire.
“Il canto della caduta” narra una parte dell’articolato ciclo epico appartenente alle valli centrali delle Dolomiti, in Alta Pusteria: si tratta delle leggende legate al regno dei Fanes, una popolazione semileggendaria che aveva abitato in epoche pre-storiche, l’omonima Alpe.
È l’immagine simbolica a governare l’intero spettacolo e il frequente passaggio da un piano fisico a un altro, dal “sopra” abitato dai corvi al “sotto”, regno sotterraneo dei bambini, ne è una valida rappresentazione.
Il linguaggio verbale diventa così strumento, veicolo di una narrazione non sempre lineare legata a una consequenzialità arcaica che, procedendo in direzioni diverse, giunge alla conclusione dopo aver tirato tutti assieme i tanti fili lasciati fino a quel momento un po’ sospesi.
La freddezza del metallo con cui sono costruiti i corvi, creati dalla scenografa Paola Villani, che privi di qualsiasi ipocrisia amano la guerra semplicemente perché fonte di cibo inesauribile, è esaltata dal confronto con l’aspetto ligneo dei bambini, un maschio e una femmina, in attesa del ritorno del “tempo promesso”, un’epoca dalla struttura matriarcale dominata dalla condivisione pacifica, memoria archetipica universale di un’età aurea in cui il potere era basato sulla responsabilità verso gli altri e verso l’ambiente e gli antenati partecipavano della vita attraverso la rappresentazione dell’animale totem, la marmotta, schivo abitante dei boschi di montagna.
L’epoca seguente è quella in cui siamo ancora immersi, tempo misurato dalla logica patriarcale della guerra e della sopraffazione, dall’appropriazione e dallo sfruttamento della terra e degli individui, in cui il potere è usato come strumento di controllo.
Il compito di mantener viva la speranza non a caso è stato affidato dalle antenate ai bambini, sette maschi e sette femmine. Sono nascosti da tempo immemorabile nella montagna, celati dietro maschere raffiguranti il muso di un topo e hanno la difficile missione di attendere, con fiducia e pazienza millenaria, la restaurazione di un mondo nuovamente pacificato, in un tempo sospeso che li rende di fatto immortali.
L’evidente contaminazione fra ambiti e discipline adiacenti ma diverse – archeologia, folclore, mitologia, linguistica, etnologia – produce risonanze che rimbalzano e, riflesse dall’attrice e autrice monfalconese, si diffondono nell’immaginario collettivo del pubblico.
Appaiono così echi di fiabe antiche, racconti mitici, archetipi universali che offrono la speranza per un mondo diverso, al quale non sembriamo purtroppo essere ancora pronti.
Paola Pini