Sono nel vaporetto che naviga nel Canal Grande. Certamente uno dei panorami più belli del mondo. Quelli seduti davanti a me non guardano dal finestrino. Sono tutti concentrati nell’osservare con attenzione le immagini trasmesse dai loro cellulari. Probabilmente anche quelle di Venezia.
La caverna di Platone digitale.
I prigionieri immaginati dal filosofo erano incatenati e costretti a guardare sempre le ombre proiettate dal fuoco alle loro spalle, tanto da scambiarle per la realtà vera. Rifiutata, una volta liberati dalle catene e usciti dalla caverna.
Anche le ombre che ci propongono, e impongono, le nuove tecnologie sono più seducenti? La realtà reale è dunque un vecchio modello obsoleto e antiquato, incapace di competere?
Esiste ancora la realtà, quella reale? O piuttosto quella che continuiamo a chiamare “realtà” è come un vecchio elettrodomestico dalle prestazioni ormai superate? Mondi più seducenti e perfezionati – o per lo meno più tollerabili – riflessi illusori di vita ci appaiono in offerta speciale in quelle caverne platoniche ad alta definizione che sono schermi dei computer e dei cellulari.
Un fenomeno analogo avviene anche nei teatri – lirici e di prosa – con la ormai ricorrente abitudine agli anacronismi.
Uno dei tic più diffusi tra i registi “creativi” è quello di spostare a loro piacimento le collocazioni temporali dei classici e di “incatenare” gli spettatori ad assistere a ombre ambientate in periodi diversi rispetto a quelli della scrittura dei testi messi in scena. Certi registi agiscono come macchine del tempo di wellesiana memoria, andando avanti o indietro nelle epoche storiche.
La vittima più illustre è forse William Shakespeare, trasformato quasi in un autore vissuto negli anni tra le due grandi guerre per i vari “Riccardo III”, “Macbeth”, “Giulio Cesare”, ecc. vestiti in camicia nera o in divisa nazista.
Ma in verità i vasti rivolgimenti dell’animo nei testi shakespeariani sono come certi fenomeni astrali – un’eclisse, un passaggio di cometa – che si manifestano come ricorrenze epocali.
Così la grande allegoria sul potere in quanto assoluta perfezione del Male, per esempio nel “Riccardo III” – dove tutto è armonico ma solo al negativo – il regista è ovviamente tentato di rileggerla in chiave di attualizzazione.
Insomma, “Shakespeare nostro contemporaneo” come vuole il proverbiale titolo del saggio di Jan Kott, attribuendo al malvagio monarca l’identità di un mafioso o di un nazista.
Ma queste letture anacronistiche sovente non sono indenni da una tentazione semplificatoria. Se non semplicistica.
Pietro Favari