Aiuto, il politico scrive testi sulla mafia! La rubrica di Enrico Bernard

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La drammaturgia italiana del dopoguerra, a differenza del cinema e della letteratura, è avara di testi  sulla mafia.  Con due grandi eccezioni: Leonardo Sciascia e Giuseppe Fava (e potremmo aggiungere Ugo Betti sul fronte della corruzione). Come sappiamo però queste sorgenti che avrebbero dovuto portare ad una vera e propria fiumana si sono disperse in mille rivoli “minori”. Anzi, o si sono spente nella scarsa attenzione con cui il teatro italiano ha trattato un capolavoro come L’onorevole – oppure si sono trasformati in un fiume di sangue, come nel caso del coraggiosissimo Giuseppe Fava, assassinato dalla mafia davanti al teatro a Catania dove andava in scena il suo testo L’ultima violenza.

Eppure la drammaturgia italiana contemporanea ha il suo atto fondativo proprio in un lavoro del teatro verista siciliano del 1863  che per la prima volta tratta apertamente  di mafia: I mafiusi della Vicaria di  Giuseppe  Rizzotto e Gaspare  Mosca. Ne parla Luigi M. Lombardi Satriani  nella prefazione al secondo volume della collana Assoli contro la mafia  (contenente testi di Maricla Boggio, Fortunato Calvino, Enrico Bernard,  Elisabetta Fiorito, Maria Pia Daniele):

Chi legge quest’opera è colpito da come vengono presentati  i conflitti, più o meno fondati, dovuti a gelosia o alla necessità di dimostrare di non aver paura e di essere pronti a risolvere ogni contrasto con il coltello; noterà come in fondo si tratti di una concezione arcaica dell’onore che impone che il maschio deve mostrare di saper vigilare sull’onorabilità della propria donna – si tratti di moglie, figlia, sorella, madre –  considerata di esclusiva proprietà maschile. Se nonostante tutto vengono “macchiate”, anche se senza la loro complicità,  devono comunque essere punite; così la loro colpa sarà lavata con il sangue del colpevole e della stessa vittima. Un atteggiamento di per sè non dissimile da quello richiesto nella società tradizionale a chiunque, uomo o donna, pur nella rigida divisione di ruoli e funzioni.

Tuttavia,  nonostante i pressupposti letterari e le fonti risalenti addirittura al XVIII secolo, solo negli ultimi 20-25 anni il teatro sulla mafia è venuto a costituirsi come un vero e proprio “genere” drammaturgico. Infatti è a partire dalla prima metà degli anni Novanta del XX secolo che si può cominciare a constatare una sempre maggiore attenzione da parte degli autori italiani nei confronti della violenza mafiosa.

Naturalmente questa situazione particolare del teatro italiano, questo suo ritardo in tema di impegno civile, va letto e in parte giustificato sulla base della stretta dipendenza della produzione teatrale dal placet (lo spiega benissimo Eduardo ne L’arte della commedia  del 1965) e dalla sponsorizzazione delle autorità politiche, spesso quelle locali, cioè assessorati e caserme di polizia e vigili urbani per i permessi , finanziamenti e quant’altro. Era lì quel “tappo”, meglio dire quel “sasso” in bocca al teatro che impediva o rendeva quanto meno “complicato” urlare nelle piazze la parola “mafia”.

Ebbene questo tappo è stato in parte, solo in parte, rimosso: oggi  le autorità locali, anche nelle regioni più a “rischio” mafioso, non si tirano più indietro quando sui palcoscenici delle varie piazze sale il tema della violenza mafiosa. Anzi c’è quasi una gara a fare di più, una gara che tuttavia ha anche il sapore di un “coprirsi le spalle” contro eventuali critiche così da poter dire: che volete? Il nostro dovere culturale lo facciamo.

Così si assiste ad un altro fenomeno che può risultare paradossale:  la politica, la quale  per un secolo ha  cercato di mettere il silenziatore ad ogni forma di teatro sulla mafia, all’improvviso si interessa ad esso,non per aprirgli le porte e facilitarne la rappresentazione, ma per fare essa stessa teatro: i “politici” stessi ora  scrivono testi sulla mafia della politica. Il pericolo non è naturalmente quello di una “compromissione”,  visto che i politici che scrivono teatro sul tema mafioso sono tutti indiscussi “campioni” ed esempi dell’antimafia, piuttosto si corre il rischio che a scrivere drammaturgia non siano i drammaturghi, ai quali verrebbe imposto un nuovo “silenzio”: prima osteggiati dalla politica e poi obliati dalla stessa. Se bisogna parlare di teatro tanto vale che ne parliamo noi politici che di mafia ne sappiamo più di voi drammaturghi!

Insomma: il risultato, nonostante l’impegno profuso, in questo caso è quello di un silenzio di secondo grado: la politica – uso il termine nel senso “generale” della prefazione di Sciascia a L’onorevole  “che potrebbe essere di qualsiasi partito” quindi anche dell’antimafia culturale, anzi il personaggio di Sciascia conclude la sua carriera partecipando al festival di Venezia  –  vuoi per protagonismo, vuoi per aspirazioni letterarie personali, interviene nelle produzioni teatrali: si fa rappresentare. E dal momento che la politica determina e gestisce i meccanismi “politici” della produzione teatrale è, insomma, facile  al politico-autore di teatro imporsi “politicamente”e sfornare pseudodrammi, che drammi non sono ma “documenti”, magari di indubbio valore “politico”, appunto, ma di scarsa rilevanza teatrale.

La collana degli Assoli contro la mafia nasce dunque dalla necessità di selezionare, in un momento in cui il tema finalmente suscita l’attenzione del pubblico teatrale, i lavori che possiedono  una effettiva qualità drammaturgica da quelli che possono essere invece considerati materiali documentari più o meno interessanti, che però non assurgono ad una vera e compiuta autorialità in grado di resistere nel tempo. Come scrive Antonio Nicaso nella prefazione del primo volume:

Paolo Borsellino, prima di morire, aveva sottolineato l’importanza di non considerare la lotta alla mafia «una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale», capace di coinvolgere «tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».

Si tratta allora di costituire questo movimento culturale e morale contro la mafia che non sia però solo contigente: perché il documento e l’analisi necessitano di una trattazione drammatica per non sfociare nella retorica tipica della lezioncina scolastica, come scrive Lombardi Satriani:

 Non è sufficiente la declamazione per combattere efficacemente questa tipologia criminale. Anzi essa può portare a una sorta di retorica dell’antimafia. Questo è stato intuito lucidamente da Leonardo Sciascia, anche se l’occasione specifica da cui mosse per scrivere questo famoso articolo sul Corriere della Sera era sbagliata (la promozione di Giovanni Falcone); è un dato però che spesso ci si ripuò rifugiare nella declamazione perché  in effetti niente cambi, anzi quale alibi per la propria pigrizia e assenza di iniziative.Non bisogna arrendersi alla realtà ma impegnarsi tenacemente a individuare la via per superarla, per modificarla, secondo un più alto progetto di convivenza umana.

Resta il fatto che il “superamento” del problema auspicato da Lombardi Satriani cozzi contro la dura realtà del sistema mafioso che sta allungando le “mani sulla cultura” proprio attraverso il meccanismo assolutamente imbarazzante dei politici che scrivono testi di teatro su o contro la mafia. Infatti se da un lato  bisogna ammettere che non tutti i politici sono mafiosi, va anche aggiunto che tutti i mafiosi ormai fanno politica o sono politici essi stessi. Quindi sarebbe meglio che di mafia se ne occupino gli autori che non sono politici e non i politici che aspirano ad essere autori – come l’Onorevole di Sciascia.

Enrico Bernard

Per chi volesse approfondire:
https://www.academia.edu/13176703/LE_MANI_SULLA_CULTURA_DA_LONOREVOLE_DI_SCIASCIA_A_CESARE_DEVE_MORIRE_DEI_FRATELLI_TAVIANI

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