Dunque, mettete la farina in un piatto e mescolatela con il sale, lo zucchero ed il pepe.
Lavate i pomodori, asciugateli e tagliateli a fette di circa 2 cm di spessore. Passate quest’ultime nel miscuglio di farina, premendo bene con le mani in modo che con l’umidità del pomodoro si formi un rivestimento spesso. Scaldate il burro in una padella e friggetevi 3 fette di pomodoro alla volta, fino a quando saranno ben dorate. Servitele caldissime. E attenti a non scottarvi, che il rischio c’è.
Fannie Flag è regina nella culinaria dei sentimenti: sua la ricetta di “Mr. Zuppa Campbell, il pettirosso e la bambina”, dell’“Hamburger e miracoli sulle rive di Shell Beach” mentre ad aprire la giornata è “Pane cose e cappuccino dal fornaio di Elmwood Springs”. Ma la sua specialità è quella che, fuor di dubbio, si serve, ogni giorno di un tempo rubato alla memoria, al caffè di Whistle Stop, con il treno che fischia e la varia umanità che si ferma a divorare con allegria, miseria, gioia di vivere il verde della speranza in salsa di pomodoro. Storia di sentimenti e di amicizia profonda tra due ragazze prima, donne poi, antitetiche e complementari quella che il regista Jon Avent, avvalendosi della sceneggiatura originale dell’autrice, porta sullo schermo.
Sono passati venticinque anni dalla prèmiere del film: non si è rancidita la salsa né un briciolo di polvere ha impatinato la grana preziosa della pellicola, solo perché la vita che rappresenta e la sferzata d’energia che ne deriva è ancora in grado di darci vigore.
Quattro donne – quattro stupende interpreti, Mary Stuart Masterson, Mary Louise Parker, Kathy Bates, Jessica Tandy – quattro storie, due generazioni a confronto: Evelyn e Ninny si incontrano in una casa di riposo per anziani, mezza età colpevolizzata da eccesso di “ciccia” la prima, ottant’anni di dinamite la seconda.
Una frequentazione, dapprima casuale, poi appuntamento fisso che fa dell’anziana Ninny una sorta di Sherazade della memoria.
Il filo narrativo che con abilità intesse riporta cuore e mente alla storia, quella dell’amicizia tra la fiera Idgy (M. Stuart Masterson) e la dolce Ruth (M.-L. Parker) e le drammatiche peripezie che le portarono a gestire insieme il Whistle Stop Café alla fermata di un treno che non c’è più, dove si poteva gustare la specialità locale.
E da quella storia -che diventa anche, con delicatezza e brio, narrazione di lutti mai del tutto superati, di sorellanza, di passione condivisa, ma anche di sessismo e razzismo a sud di un’America di zanzare fastidiose, ma anche di api melliflue capaci di farsi ammaliare – Evelyn trae la forza per riappropriarsi di una vita che il dolce non lo debba più scoprire solo nei cioccolatini ingurgitati in fretta. Perché la colpa, l’unica colpa, è non vivere e dare voce a chi voce non ha più.
Bella lezione, quella delle due giovani, anticonformiste in quegli anni ’30 che l’Alabama recitava ancora a mò di “Via col vento” – le due protagoniste ricordano, nella grana, in controluce, la dolce Melania e la risoluta Rossella – appresa in fretta, gustando pomodori verdi fritti.
In quel bar dove la natura umana si mescolava, ma dove a distinguere i neri dai membri del Ku Klux Klan bastava uno sguardo distratto delle due indagatrici dell’umanità agli occhi prima e alle scarpe poi. Imbarazzante meraviglioso gioco che si presta a un’estate di piedi nudi e anime leggere.
Con l’orecchio al fischio di un treno che non c’è più ma che, ci sorprendiamo a pensare, almeno una volta al giorno dovrebbe spezzare la nostra imposta quotidianità e la troppa violenza che ancora scandisce questo mondo bastardo.
Maria Laura Platania