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“Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali”, il declino di un autore non più speciale

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È quasi imbarazzante trovarsi qui a dover scrivere del funerale artistico di un autore come Tim Burton. Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali è l’apice in negativo di un declino iniziato nel 2007 con Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, e solo parzialmente salvabile dal piccolo, ma rincuorante, riscatto di Frankenweenie (2012). Da allora niente più Tim Burton. E questo vuoto fa male, a chi lo ama, ma al cinema tutto, all’arte. Ma il problema di Miss Peregrine, se vogliamo proprio scandagliare a fondo questo vuoto, ed è la cosa che fa venire i brividi, è ancora più vasto e grave: perché in quest’ultimo lavoro del regista di capolavori come Edward mani di forbice, Ed Wood, Big Fish, non solo non si trova traccia del suo stile, della sua magia, del suo modo unico di interpretare il linguaggio della narrazione cinematografica per dar vita ad ambientazioni fiabesche e ad un immaginario variegato, strampalato, ed originale, se non in qualche sequenza dal gusto puramente horror, ma non si trova proprio traccia del cinema. Per quanto non eccellente e altrettanto poco burtoniano, il precedente Big Eyes, era almeno un film saldamente ritto su stesso, perché ben inquadrato in una forma artistica consapevole ed evidente. In Miss Peregrine invece non solo scompare il Tim Burton creativo, ma anche il Tim Burton regista: le inquadrature si contano in una mano. Nonostante la storia di questi ragazzi speciali, sospesa tra il racconto fantasy e quello gotico, tra il dark e l’horror, con quella percettibile aurea di inquietudine tale da poter costituirsi come scintilla perfetta per innescare l’immaginazione del nostro autore, si prestava benissimo per essere modellata e restituita in una forma cinematografica e peculiare, si può comunque accettare che il regista americano non sia riuscito a convogliarla dentro i percorsi chiari della sua poetica, o ad altri nuovi, per rinnovarsi e innalzarsi chissà, ma è sconcertante prendere atto di come abbia perso l’indirizzo di casa cinema, e che quest’opera non riesca a trovare proprio le basi fondamentali di una costruzione cinematografica degna, coerente, e ben fatta, per poggiare i piedi, e stare almeno fiera davanti al suo pubblico. Burton non fa Burton e, cosa peggiore, non fa nemmeno cinema.

Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali ha una sceneggiatura di cui conosciamo già ogni stanza, ogni corridoio, ogni passaggio segreto e nascondiglio (ce ne sono pochissimi!): è uno di quei modelli già preconfezionati, nei quali basta cambiare location, personaggi, e moventi della storia, ma poi tutto procede da sé, con il pilota automatico, con le parti introduttive più convenzionali, che proprio ti palesano a chiare lettere di essere un’introduzione; con i soliti punti di svolta, e le crisi, i ripensamenti, che arrivano puntuali quando proprio li stai aspettando e lo scioglimento finale che accomoda tutto nella normalità più inutile. Non c’è guizzo di alcun tipo, né dentro la fabula, né di intreccio.

é tantomeno di significato: la diversità? La metafora su chi siano i veri cattivi, quelli reali che causano i conflitti mondiali o quelli fantastici, come i mostri che si cibano di occhi dei bambini? (Tra l’altro realizzati con una CGI pessima che dopo la seconda inquadratura stanca anche la mente più fervida ed attiva). E poi le solite, disarmanti, incongruenze tra personaggi con superpoteri, missione ed obiettivi: quando, per esempio, ti accorgi che il cattivo di turno, Barron, interpretato da Samuel L. Jackson, poteva essere liquidato in un attimo, chissà semmai sfruttando il potere dei gemellini ai quali basta uno sguardo per pietrificare qualunque cosa, e invece per creare un po’ d’azione, di movimento, di suspense, permetti al tuo poco credibile protagonista di inventare un piano così assurdo, da essere, pensate un po’, anche efficace. Miss Peregrine, la sua casa, i suoi bambini speciali, la loro protezione e cura, allestiscono uno scenario che ha in sé la matrice della suggestione, ma resta lì, impressionato in alcune vecchie foto che il nonno di Jacob, ex bambino speciale, mostrava al nipote ancora piccolo per preparalo al suo destino, e soffocato, dentro un procedimento narrativo che definirlo didascalico è poco. Jacob, una volta cresciuto, è infatti il solito ragazzino timido e sfigato che nessuno si fila e tutti bullizzano: poi scopre il suo personale armadio di Narnia ed entra in un mondo dove regna l’alterità, trovando così la sua dimensione, riscoprendo quell’amore che solo il nonno aveva saputo donargli nella realtà, nuovi legami, e qualcosa per cui lottare. Ma è un mondo pericoloso che cela nemici e segreti, che Miss Peregrine e i suoi bambini hanno promesso di non rivelargli. Cioè almeno per 20 minuti di film, poi basta una gita subacquea con Emma, la ragazzina che sa volare e di cui lui si innamora, e questa inizia a fugare ogni suo dubbio e a rispondere a tutte le sue domande. Poi Miss Peregrine integra il tutto con qualche dettaglio in più. E noi siamo lì a sentirci rivelare l’arcano dei ragazzini speciali, di quel mistero nascosto dietro quelle foto antiche così evocative, in dialoghi piatti e in un modo così banalmente diretto. Jacob è un personaggio a cui non ti affezioni, non perché sia stupido, ma perché fa lo stupido, perso nell’inconsistente interpretazione di Asa Butterfield, che fa faccette e smorfie tipiche di chi deve interagire con una realtà parallela ma si scopre costantemente a disagio: e in tal senso il suo potere, di essere l’unico a riuscire a vedere i Vacui (i mostri) risulta un boomerang eccezionale.

Ciao Tim, quando torni, avvisaci prima, e risparmiaci tutta questa tristezza.

Voto 4 su 10

Simone Santi Amantini

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