Venezia, Teatro La Fenice, dal 9 al 17 dicembre 2016
Nel 2016 ricorrono i 170 anni dalla prima di Attila, avutasi il 17 marzo 1846 al Teatro La Fenice. La Fondazione veneziana lo inserisce in cartellone, dopo Aquagranda, quale omaggio all’origine mitica della città che oggi, prove alla mano, si sa non essere nata dall’esodo delle popolazioni in fuga dalle devastazioni del “flagello di Dio”. Sulla qualità del lavoro verdiano, tagliato con l’accetta nei tormentati “anni di galera”, più che condivisibile è il giudizio critico di Julian Budden espresso in The Operas of Verdi, seppur col tempo Attila sia entrato nel repertorio di molti cantanti celebri. Ricca di pagine memorabili che richiedono agli interpreti sfarzi e sforzi vocali notevoli, tanto che per il ruolo femminile venne scritturata Sofia Loewe alias Polmoni d’acciaio, l’opera manca di quella perfetta sintonia tra musica e libretto che giungerà più tardi con la maturità del compositore. Il plot vede schierati il re degli Unni, la cristiana Odabella, l’intrigante Ezio e il gregario Foresto in un dramma di passioni personali, giochi di potere e orizzonti di gloria, dove il bene trionfa sul male. Attila però non è il cattivo luciferino à la Jago, ma un dux ben ritratto nella propria integrità morale, qualità che avvicina il pubblico più dalla sua parte che verso la temeraria Odabella. Un eroe che, nonostante la lucidità di governo, s’immola al sacrificio.
Chi scrive ricorda ancora con vivo entusiasmo l’allestimento curato dalla Facoltà di Design e Arti dell’Università IUAV di Venezia proposto dodici anni orsono al PalaFenice che vantava artisti del calibro di Pertusi e Theodossiou sotto la guida del compianto maestro Viotti. Un vero kolossal, curatissimo nei dettagli, senza grandi pretese drammaturgiche se non quella, sovente dimenticata, della fedeltà alle volontà dell’autore. Belli i tempi del tendone! Oggi viene ripreso l’allestimento del Comunale di Bologna coprodotto col Massimo di Palermo. Daniele Abbado si adegua alla moda prediletta di molti registi, la staticità. Movimenti minimi tra personaggi, pathos congelato nella figura stante e mancata ricerca di spessore nella coppia Attila-Odabella manifestano la mancanza di un’idea chiara. Tutto rimane indefinito. Si legge, nel sempre provvidenziale programma di sala, dell’intenzione di traslare la vicenda in un vago Est contemporaneo, dove gli Unni diventano guerriglieri e i romani generali in impermeabile. Tale scelta all’atto pratico è suggerita assai velatamente dai costumi di Gianni Carluccio e Daniela Cernigliaro, ma non dalle scene atemporali e grigie dello stesso Carluccio. Lo scenografo, assecondando quell’estetica della superficie grezza prediletta da Abbado, pensa a uno spazio tetro, fatto solo di vele ed enormi frammenti d’architetture, invero troppo grandi per il palcoscenico in questione. All’incombente oscurità contribuisce pure il light design, giocato su luci che poco evidenziano gli artisti. La calata della cortina nera a ogni cambio scena frammenta ulteriormente la già assente azione, mettendo la parola fine sull’efficacia dell’allestimento.
Riccardo Frizza dirige con piglio deciso sia i momenti più concitati che quelli più strettamente lirici. La concertazione, oltre all’ottima scelta dei tempi e delle dinamiche, si ammanta di sonorità ora suggestive ora sostenute, complice l’orchestra attenta e solerte. Il dinamismo impresso da Frizza contribuisce a restituire quel senso di sprono patriottico che Solera e Verdi misero sulla carta.
Roberto Tagliavini offre una prova eccellente nel ruolo eponimo. Il suo Attila può contare su una linea di canto omogenea, piena in tutti i registri. L’ottimo fraseggio, adoperato in maniera esemplare per restituire le sfaccettature del personaggio, rivela in Tagliavini un notevole estro poetico. Che Leone sicuro quello di Mattia Denti! Timbro ambrato, capacità di imprimere colore, nessuna sbavatura di sorta e ricchezza d’espressione ne decretano il successo. Bene l’Ezio di Julian Kim che vanta omogeneità vocale, ma migliorabile nell’accento. Vittoria Yeo non è certo soprano drammatico d’agilità, requisito base per superare la prova Odabella. Inevitabili dunque le difficoltà nel grave, in precisione e agilità nel registro acuto dove fa capolino qualche fissità, mentre riesce meglio nei momenti lirici. Stefan Pop possiede voce interessante, ma mal gestita nei panni di Foresto. L’estensione è buona, come pure la dizione, ma la linea di canto, come palesano gli acuti non sempre centrati, manca di fermezza e uniformità. Non gli giova poi la tendenza a esasperare le dinamiche, sbilanciandosi verso un costante canto in forte. A lui l’augurio di raggiungere una complessiva omogeneità e maggior consapevolezza nel fraseggio. Completa il cast Antonello Ceron, Uldino corretto.
Impeccabile il coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Teatro non pienissimo alla pomeridiana dell’11 dicembre, ma applausi e successo generale.
Luca Benvenuti