Trieste, Teatro Lirico Giuseppe Verdi, dal 13 al 22 gennaio 2017
Presentare qualcosa di non tradizionale è sempre un rischio: quel che viene accolto con gran favore nel teatro di una città può essere invece criticato in un altro e ci vogliono intelligenza e doti strategiche, ma anche tanta umiltà per decidere di regolare il tiro di quanto proposto a seguito dell’incontro tra il pubblico e lo spettacolo ed è proprio questo che è stato fatto con la Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart in scena in questi giorni a Trieste, dopo che alla prima rappresentazione alcune scelte registiche sono state contestate (il perfido Monostatos che si infila nella vasca con Pamina, la Regina della Notte che fuma assieme a Tamino una lunga pipa contenente sostanze ipnotiche, la forzatura di rappresentare con l’elettrochoc e l’annegamento forzato le simboliche prove iniziatiche, che in verità dovrebbero determinare forti esperienze interiori prive di sofferenza fisica, o quella di far vestire Monostatos e gli schiavi con divise che ricordano certe milizie presenti nei paesi totalitari, o infine il travisamento nel considerare quel che avviene nel mondo massonico, ispiratore dell’intera opera, come espressione di maschilismo).
Gli aggiustamenti possibili hanno permesso così di far apprezzare ai presenti, fin dalla prima replica, questo allestimento interessante e ricco di spunti. È una sfida importante anche scommettere sui giovani che hanno costituito i due cast e sulle collaborazioni internazionali (in questo caso continua la presenza di cantanti sostenuti con le borse di studio della Sawakami Opera Foundation giapponese).
La Zauberflöte è un’opera d’arte assoluta, per la quale è necessaria la guida di un grande Maestro. Pedro Hallfter Caro, direttore dotato di una sensibilità sublime, una competenza di livello eccelso e una preziosa attenzione per l’esecuzione musicale nella sua unità, ha diretto non soltanto l’orchestra, ma anche i cantanti in modo così sollecito e partecipe da rendere con incredibile grazia ed amore sia la complessità che la trasparenza cristallina di questo capolavoro in tutte le sue infinite declinazioni stilistiche ed interpretative.
Nella regia di Valentina Carrasco, due divinità bambine giocano con la casa delle bambole. Sono Iside e Osiride che, muovendo, urtando o rovesciando le scatole che contengono i loro pupazzi, agiscono sulla vita degli esseri umani, i quali a loro volta soffrono e gioiscono, si amano e si odiano, litigano e si rappacificano, affrontano da soli o assieme prove iniziatiche intorno e dentro un edificio tridimensionale costruito su tre livelli, che si muove e ruota su se stessa. Tutto è molto dinamico, sia le azioni dei cantanti che le numerosissime controscene. La sua è stata un’idea senz’altro provocatoria per alcuni versi, ma con molte idee brillanti ed una creativa attenzione dei particolari, cui si è legata una scenografia molto complessa, sia nella realizzazione che nella gestione ad ogni replica. Una produzione di questo genere è una sfida che i Laboratori del Teatro Verdi hanno affrontato superandola appieno e dimostrando l’esistenza, all’interno dell’intera struttura della Fondazione di una grande competenza artigianale oltre ad una capacità di coordinazione davvero notevole tra i diversi ambiti e settori interni. I costumi di Nidia Tusai, realizzati con abilità dal Laboratorio di sartoria, anch’esso interno al Teatro, rimandano con efficacia a quest’immagine di “pupazzi viventi”.
L’orchestra, il coro e tutti i cantanti hanno seguito con fiducia la direzione data da Pedro Halffter Caro donando così alcune ore di emozioni profonde, che si sono mantenute negli animi anche dopo aver visto calare il sipario, come si conviene quando si assiste ad un’opera come questa.
L’Ouverture presenta scenicamente l’antefatto: il padre di Pamina (le brave Elena Galitskaya e Lucrezia Drei), sposo della Signora della Notte (le appassionate Katharina Melnikova e Olga Dyadiv) si ammala e muore, lasciando all’amico Sarastro, (gli ieratici David Steffens e Petar Naydenov) il Medaglione del Sole. La figlia viene strappata alla madre dall’Oratore (Horst Lamnek)
per essere protetta dalla di lei ignoranza ed educata secondo i principi seguiti con convinzione dal genitore scomparso e dagli altri iniziati. I tagli ridotti dei dialoghi hanno permesso di seguire l’intera vicenda in modo più definito, pur senza per questo perdere in tensione drammatica, anche grazie alla vivacità d’azione presente in scena. Le voci delle tre dame (Olga Dyadiv/Rinako Hara, Patriza Angileri e Isabel De Paoli) sono così particolari da creare nel loro assieme un impasto di colori e chiaroscuri che ricordano i giochi di luci ed ombre dei quadri di Rembrandt; Tamino (Merto Sungu e Vassilis Kavayas)
In quest’opera molti ruoli richiedono, oltre alle doti vocali, anche buone abilità da caratteristi: è il caso in particolare di Papageno (Peter Kellner e Dario Giorgelè), Monostatos (Motoharu Takei), e Papagena (Lina Johnson), ma anche in qualche modo nel Primo (Giuliano Pelizzon) e nel Secondo (Francesco Paccorini) Sacerdote e tutti si rivelano in questo senso ben capaci. Originale la scelta di trasformare i tre genietti (Elena Boscarol, Simonetta Cavalli e Vania Soldan) in tre giocattoli a molla, dalle tipiche movenze a scatti, eseguite da tutte in modo davvero divertente.
La compresenza dell’elemento fiabesco assieme a quello filosofico ed esoterico spesso porta la regia a far prevalere uno o l’altro. Qui invece essi convivono in modo armonico creando un grande equilibrio e facendo emergere l’interiorità di molti personaggi e in particolare con Pamina, il cui abito cambia a seconda si senta in quel dato momento più vicina al mondo evocato dal ricordo o dalla presenza madre o dalla quella di Sarastro, finché alla fine sceglie e sarà assieme a Tamino iniziata ai sacri misteri.
Il finale è grandioso e suggestivo, magico e simbolico: i personaggi tutti si inchinano al cospetto di Iside ed Osiride che impongono a tutti loro una posizione più o meno divertente, ma a conclusione la divinità femminile farà abbracciare la Regina della Notte con Sarastro, indicando così l’inscindibilità delle due parti e la ricomposizione dell’infranto avvenuto a seguito della morte del padre di Pamina la quale è posta con Tamino sul secondo livello della casa, liberi entrambi di muoversi autonomamente, dopo aver cantato poco prima: Grazie al potere della Musica attraversiamo lieti l’oscura notte della morte. Vengono allora in mente le parole, scritte da Rudyard Kipling, premio Nobel per la Letteratura nel 1907 e massone, nella sua poesia “La mia Loggia Madre”: …E mentre noi, dopo tante parole / Ce ne tornavamo a cavallo, / Maometto, Dio e Shiva / Giocavano stranamente a nascondino nelle nostre teste…. E ancora:…Di fuori si diceva: “Sergente, signore, salute, salam” / Ma, dentro, soltanto “fratello” ed era così bello dire così!…
Paola Pini