Dietro l’aspetto da bravo film di fantascienza, Arrival nasconde la sostanza tipica dell’opera di Denis Villeneuve, che si manifesta soprattutto in una natura derivativa dal thriller, e nella sua forma concepita come un mistero da indagare e risolvere, da ricomporre, non solo per il senso di appagamento nel suo svelamento e chiarimento, quanto per intuirne tutta la portata drammatica e sentimentale.
Tratto dal racconto “Storia della tua vita” di Ted Chiang, Arrival mette in scena un tema topico del cinema: l’incontro ravvicinato con creature aliene. 12 astronavi denominate “gusci” per la loro forma particolare e d’avanguardia, sono atterrate in 12 posti diversi della Terra. La minaccia percepibile non si trasforma tuttavia in una minaccia reale: questi alieni non sembrano, almeno inizialmente, intenzionati a conquistare la Terra, o a sfruttarla per qualche loro scopo. Cercano un contatto. Nell’atmosfera opacizzata e sospesa, racchiusa da un cielo terso e perlopiù cupo del sito americano dove ne è atterrata una delle 12, due creature dell’equipaggio trovano il tramite di un dialogo nella linguista Louise Banks (Amy Adams), eroina-scienziata, dagli occhi larghi e carichi di curiosità: se la Ryan Stone di Gravity si perdeva nel vuoto cosmico dello spazio, lei si perde nel vuoto della conoscenza, nella differenza mai così vasta e indefinibile, cercando di carpire sensi, segni, e rimandi, di un linguaggio anomalo, ma così fortemente spiazzante nella sua rigorosità geometrica e visuale. Un linguaggio che le aprirà le porte di una conoscenza ulteriore, traslando di fatto quel vuoto all’interno del suo animo, a scardinare ed interrogare la propria coscienza.
Villeneuve si misura con totem illustri, come Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg e Contact di Robert Zemeckis, ponendo di nuovo l’attenzione sull’importanza della comunicazione, della parola e del dialogo, quando invece Alfonso Cuarón aveva reso protagonisti il silenzio e la solitudine. “La lingua è il fondamento della civiltà”, scrive Louise in uno dei suoi libri. Così l’urgenza della comunicazione diventa fondamentale, capire diventa fondamentale: il clima che la sceneggiatura di Eric Heisserer costruisce intorno a questo fenomeno alieno è da guerra fredda. Una tensione costantemente palpabile, un pericolo latente, conseguenza di quel mistero improvviso e incalcolabile, troppo mistificato e chiacchierato della vita extraterrestre, che cela le loro reali intenzioni: un’atmosfera complessiva che si dirada progressivamente nel film, e che si erge, svelandosi, come fondamento dell’idea più profonda di concepire un film senza esplosioni o guerre, senza eventuali apocalissi all’orizzonte, ma sull’interazione e sul legame, di un io che si misura con un altro, e di tutte le meccaniche, emozionali e pratiche, che ne scaturiscono, rendendo di fatto l’opera più minimale e intimista. Louise è l’eroe che senza atti eroici plateali decide consigli di guerra, sposta decisioni, e dirige le azioni, perché testimone di un quadro complessivo più grande ricevuto in dono. “Tom” e “Jerry”, come vengono simpaticamente soprannominati i due eptapodi (così chiamati per via dello loro 7 gambe), e i due umani, Louise e lo scienziato, fisico e matematico, Ian Donnelly (Jeremy Renner), sono i quattro poli del dialogo, che cercano di riempire quel divario, quel vuoto, con la conoscenza, con un insegnare ed imparare, dire e ascoltare, donare e ricevere: la lingua terrestre si misura con un linguaggio di segni che ha nel cerchio la sua forma geometrica di riferimento: neri su sfondo bianco, semichiusi, chiusi o aperti, con sbavature, appendici e sfumature di vario tipo, tutti apparentemente uguali, ma così dettagliatamente diversi. Ma allo stesso tempo essenziali, primari. Ed unici. Perché impressi in un grande schermo, che si frappone tra le due coppie, che funge da medium, che sancisce una condivisione e, infine, una convivenza, che è il tramite per un dono che apre ad una visione più ampia delle cose, che trascende il nostro tempo e il nostro spazio. Sì, stiamo parlando del Cinema.
Voto 8 su 10
Simone Santi Amantini