Dal 5 al 9 aprile 2017 al Teatro Vascello di Roma
Domenica è stata l’ultima andata in scena “Truman Capote” al teatro Vascello di Roma e in assoluto. Un addio emozionato dell’attore Gianluca Ferrato che a fine spettacolo, dopo dei lunghi applausi, ha preso la parola. Ringraziando le persone con cui ha lavorato, la direttrice artistica del teatro Manuela Kustermann e lo staff, ha raccontato la sua esperienza. Interpretando Capote ha frammentato e ricostruito se stesso e questo spiega come sia riuscito a far prender vita a un personaggio presente e vivo sul palco.
Abbiamo assistito a una magia, niente sembrava costruito o artificioso, davanti a noi c’era Truman, tanto da farci scordare dell’attore dietro la maschera.
Lo scrittore americano appare nel limbo post mortem, forse un purgatorio, forse uno spazio d’attesa dell’anima, sicuramente non il paradiso. Uno spazio-tempo in cui l’uomo ha la possibilità di fare i conti con la sua esistenza, di spogliarsi di ogni ruolo per concedersi sinceramente, ma a chi? Solo sulla scena ai nostri occhi, è in compagnia di anime invisibili con cui dialoga, a cui apre il suo cuore. Come un Virgilio c’è Marilyn Monroe che lo accompagna in questo viaggio di accettazione del trapasso.
All’inizio non sappiamo che sia morto, steso su un tavolo si anima, in una stanza bianca, circondato da sedie nere, in biancheria si nasconde da chi bussa alla porta. Un picchiettare che infastidisce anche noi, chi sarà a cercarlo, a metterlo in pericolo? Strascichi delle sue paure umane, delle sue esperienze sbronze che ben presto si rivelato allucinazioni, fantasmi di un tempo lontano. Ricordi che continuano a inseguirlo per tutta l’opera e che prendono forma al la musicale e delle luci. Parte una canzone, cambia la luce e lui si ritrova in qualche situazione che rivive e lo vediamo ballare, presentare una serata, chiacchierare con qualcuno. Dei frammenti di vita presi e interrotti dalla scena, Capote è guidato come un burattino in un viaggio invisibile. Poi ci sono le anime sedute e noi vediamo come si rivolge alle sedie, come le sposta, le accarezza e porta con sé. In uno spazio irreale tutto è vero e la memoria si fa presenza, così bussa alla porta/tavolo della madre, che ha sentito sempre lontana. Scaglia il tavolo a terra e poi lo guarda e lo tira su quel tavolo/madre con le gambe sempre aperte.
Un ironico dipinto che confessa le difficoltà del genio di A sangue freddo, che della sua natura ha sempre dovuto dar spiegazione. Perché essere omosessuali è natura e non scelta, ma né la madre né la società riuscivano a capirlo. Rimane un disagio condiviso dagli artisti presi a volte come icone/pupazzi, proprio come la Monroe.
Un Capote beffardo e sensibile, che aveva molto amore da dare e riusciva a guardare oltre. “Noi amiamo da soli. Siamo sempre soli, con il nostro cuore che batte”. Il suo sguardo sul mondo è acuto e come un maestro dietro la cattedra parla di finocchi, pompini, di anima e di vergogna.
Si veste e si sveste dal bianco al nero degli abiti, della scena, per arrivare alla consapevolezza che in un altro modo non poteva vivere. Bisogna esser felici di questo, bisogna continuare la festa, lasciando il paradiso ai noiosi.
Federica Guzzon