Trieste, Teatro Stabile Sloveno, 4 gennaio 2018
Sulla terra c’è un meraviglioso ponte che collega tre mondi fra loro diversi. Sulla strada che lo attraversa si mescolano slavi, latini e sassoni creando, tra le tante cose, la letteratura centroeuropea.
La locomotiva folle, opera visionaria, comica e grottesca del poliedrico drammaturgo, filosofo, scrittore e pittore polacco Stanisław Ignacy Witkiewicz ne è un perfetto esempio.
Prodotta dal Teatro nazionale Drama di Ljubljana, è andata in scena con successo a Trieste, propaggine estrema e tanto inquieta di quel ponte sul quale passarono Bruno Schulz, Elias Canetti, Stefan Zweig, Franz Kafka assieme a tanti altri, portando ognuno il proprio personale paesaggio, ma accomunati dal desiderio di raccontare la realtà trasfigurandola in modo da creare a loro volta ulteriori ideali collegamenti che aleggiano come un profumo percepibile in lontananza, quasi in sogno e che, quando li si riconosce, provocano una struggente e immateriale nostalgia.
Avverso al Futurismo allora imperante, Witkiewicz mette in scena nel 1923 una locomotiva piena di suoni, rumori e colori sulla quale viaggiano al principio due soli personaggi, il macchinista Zygfryd Tengier (Janez Škof) e il fochista Mikołay Wojtaszek (Aljaž Jovanović) che, una volta salutate la moglie Zofia Tengier (Maja Sever)e la fidanzata Julia Tomasik (Tamara Avguštin), partono isolandosi così dal resto del mondo.
Iniziano a dialogare di filosofia, fisica, arti figurative, ma le cose si complicano quando entrambi si svelano per quel che sono: il principe Karol Tréfaldi e Travaillac, due criminali internazionali; decidono allora di compiere assieme qualcosa che faccia grande sensazione, un ultimo gigantesco delitto e, mentre ne discutono, il piano della realtà inizia a scivolare e a confondersi con altri in un duello delirante, grazie anche alla presenza di improbabili altri personaggi che poco a poco si aggiungono in modo assurdo, popolando e restringendo così sempre più un ambiente fisicamente non ampio anche a causa della presenza di due pianoforti sui quali i due protagonisti suonano con abilità straordinaria mentre recitano o cantano proponendo melodie molto gradevoli, ma ripetendo anche ossessivamente un breve tema rendendo così molto realistica la sensazione della velocità in costante e sempre più pericoloso aumento.
Ma è questo il loro diabolico piano: superare senza fermarsi stazioni e segnali di stop per scontrarsi alla fine con il convoglio n. 50.
Sembra di seguire un film muto ricco di suoni e voci, che non lo rende cinema sonoro, perché le diverse percezioni sono giustapposte e non si integrano se non attraverso un personale sforzo che ne fa cogliere e apprezzare tutte le molteplici sfumature e tonalità.
L’analisi provocatoria, continua e costante porta alle estreme conseguenze il mito della velocità propria del Futurismo, ne mostra tutte le debolezze e la potenza autodistruttiva per il genere umano; la fiducia acritica verso il progresso tecnologico e la superiorità della macchina sulle persone sono mostrate in tutta la loro fragilità. Saremo, oggi, forse in grado di riconoscerlo, comprenderlo e a seguito di ciò, agire di conseguenza?
Witkiewicz sarà definito nei decenni successivi come “Uomo del Rinascimento”; giudicato uomo di un’epoca passata, come spesso capita, era stato in verità un precursore lucido e attento e, con le sue opere, aveva saputo mostrare le trappole nascoste in questo falso mito.
Si suicidò il 18 settembre 1939, poco dopo l’invasione della Polonia da parte dei nazisti da una parte e dei sovietici dall’altra.
Paola Pini