Ahimè: lo scorso 31 ottobre si è compiuto il venticinquesimo anniversario della scomparsa di Federico Fellini, e il titolo del bell’album di Raf del 1991 mi è sembrato l’ideale per sintetizzare l’impronta artistica e umana lasciata da uno dei più grandi geni visionari non solo del cinema, ma di tutta l’arte del ventesimo secolo. Un sognatore ineguagliabile, che ha saputo riflettere sulla vita – non solo la sua – e raccontarla filtrandola attraverso la lente della dimensione onirica, dove realtà e immaginazione si fondono e dove il sogno può costituire un efficace diversivo per evadere, almeno temporaneamente, dalla dura quotidianità. Sogni al tempo stesso confusi e lucidi, in grado di catturare alla perfezione la dicotomia caos/ordine (con prevalenza del primo) che governa la vita di ognuno di noi, connubio unico di meraviglie e orrori che si mescolano tra loro senza alcun criterio logico comprensibile.
Chissà se la celebre domanda che Gigi Marzullo rivolge abitualmente ai propri ospiti,“LA VITA E’ UN SOGNO, O I SOGNI AIUTANO A VIVERE MEGLIO?”, non sia ispirata proprio all’opera e alla vita di Fellini? Quel che è certo è che i suoi sogni ci mancano e che, se la sorte avesse deciso diversamente, il grande regista riminese avrebbe potuto continuare a regalarcene ancora, come ha fatto ininterrottamente per almeno quarant’anni, a partire dalla folgorante opera prima Lo sceicco bianco (1952) fino al dolce commiato de La voce della luna (1990). Si badi bene: sognatore sì, ma anche acuto e critico osservatore della realtà contemporanea. Ne è un esempio da manuale proprio il suo film più celebre, La dolce vita (1960), con cui ha ottenuto la definitiva consacrazione mondiale. Al di là del titolo volutamente fuorviante, il film mostra coraggiosamente sia le luci (poche, e comunque effimere) che le ombre (meglio, le tenebre) della Roma “bene” fatta di intellettuali, artisti ed esponenti della media/alta borghesia che anima la celebre Via Veneto – simbolo della “dolce vita” romana – nel pieno del boom economico. Un mondo che Fellini mette a nudo – e alla berlina – ricorrendo spesso a una satira irridente e feroce: materia incandescente, esplosiva, che gli attira gli strali dei tanti benpensanti dell’epoca, che in nome del pubblico decoro invocano la “mano santa” dell’Inquisizione (oops… volevo dire della censura), mano che per fortuna non si abbatterà su un tale capolavoro. Innegabilmente ispirato ideologicamente a La dolce vita, di cui costituisce l’ideale seguito, La grande bellezza di Paolo Sorrentino torna sui “luoghi del delitto” più di cinquant’anni dopo (2013), andando a colmare quel vuoto lasciato da Fellini, cui la morte ha impedito di poter osservare e raccontare l’umanità del nuovo millennio (e ne avrebbe viste delle belle…), e immortalando un sostanziale peggioramento – opinione personale – delle cose.
Se in alcuni dei capolavori successivi il regista utilizza i propri sogni per una sorta di ripiegamento autobiografico introspettivo (8 ½, 1963), o affettuosamente nostalgico (Amarcord, 1973), il suo sguardo onirico torna a farsi “frusta” già a partire dal caotico e decadente Roma (1972), una delle sue opere più misteriose e laceranti, per farsi poi nevrotico sul finire del decennio di “piombo” (Prova d’orchestra, 1979), quindi angosciato e disgustato con l’arrivo degli anni da bere (Ginger e Fred, 1985) e, infine, quasi rassegnato nel toccante La voce della luna.
Dopo Fellini, purtroppo, quanto a “maestri del sogno” nel cinema, il vuoto; almeno fino all’avvento e alla maturazione di registi come Emir Kusturica e il nostro Paolo Sorrentino, anche se un paragone è quasi improponibile: esattamente come per i “grandi” in altri ambiti (come, per esempio, Maradona nel calcio o Jimi Hendrix nel rock), è necessario dire che di Fellini ce n’è stato uno solo e che non ce ne sarà mai un altro. Detto questo, anziché adagiarci su uno sterile quanto doloroso rimpianto del passato glorioso, dobbiamo sperare che in futuro emergano altri grandi sognatori che – ovviamente alla loro maniera – possano rinverdire i fasti che furono, aiutandoci con la loro arte a capire e trascorrere un po’ meglio questa nostra vita.
Francesco Vignaroli