Giovanni Carbone è stato uno dei vincitori del nostro premio, arrivando secondo nella sezione dedicata agli autori e vincendo anche la sezione per la migliore poesia, a pari-merito con Elma Schippa, con la lirica “Un viaggio qualsiasi”. Si pubblicano qui le sue tre poesie vincitrici, più altre cinque a discrezione dell’Autore. Buona lettura!
Confiteor
Ho sentito i cori dei corvi
e l’arcangelo vestito di nerofumo
recitare litanie
in fondo alla ciminiera
dei campi di cotone.
Era il canto della strada buia,
in riva alla città zoo,
la sirena che pregava
di catturare gli scarafaggi d’ogni tribù,
nascosti alla luce esausta del neon
dallo scricchiolio della pattumiera
gonfia d’orgoglio
e di cose mai dette e mai scritte.
E non si sa mai fossero saggi e definitivi
quei rumori della notte
il mattino si diverte a disaggregarli
per l’innata sua passione per lo smog,
o per lo smoking
– color cimitero –
da abbinare alla cravatta
con il nodo scorsoio
da indossare il ventisette
di un mese qualsiasi per l’obolo
dai vestiboli della civiltà dorata.
Memoriam Defluxit
Posso incontrarti nello sguardo di una bambola di pezza
e trovarvi il desiderio d’un altro cielo.
Posso ricostruire la magia del silenzio
nell’istante senza fiato
e farmi cogliere impreparato dal gioco d’azzardo.
Posso immaginare d’incontrarti di nuovo
mentre scendi le scale
o cammini sulla riva della spiaggia
infondo al paese diruto.
È il ricordo di te,
della costruzione del rifugio tra le dune
a due passi da quel posto
dove le tue mani plasmavano la sabbia.
Mi sorprende
il risentire il suono delle onde
e dei granelli di sabbia
urtarsi ritmicamente,
affollarsi discretamente
ed aggregarsi in forme rare,
il ricordo dell’attesa per la sinfonia conclusa
suonata sul bagnasciuga
e colorata su fondo rosso
come una testuggine,
delle cave nel buio
e dei falò rubati,
nelle notti senza fine
e della musica che hai imparato
dal sole riemerso al mattino
da un mare di magenta,
come l’orchestra dal golfo mistico.
Un viaggio qualsiasi
Ero in fuga
sul pianeta sconosciuto,
poco più in là,
dove si ripete l’arcano gioco,
tre carte e tre scimmiette,
quelle in preda a crisi d’astinenze umane
per mancati accordi
con la figlia del dottore
il fornitore di sonno preferito.
E nell’istante in preda al dormitorio
tu staccavi i biglietti
d’un tram che non ha nome
– né desiderio né altro –
ed ho scelto la fermata
dinnanzi allo specchio
per cogliere l’improbabilità
d’un autoritratto sghembo di linee
chino di teste
e parallelo di convergenze,
per la dialettica dimenticata
in fondo al bicchiere,
sulla punta della cicca spenta,
sotto le scarpe lucidate di mota
nelle mani di calce,
nella prospettiva di un dio
di cui mi ricordo appena il nome,
meglio il cognome,
certo non il viso smunto
di chi non ha più passaporto
per le stelle.
Come in un film
Come in un film
c’è una musica
“arrivederci cappello a forma di torta di maiale”,
e poi “la mia cosa preferita”,
scivolata con l’ultima nota
anzi il nota bene
– l’enne punto bi punto
in fondo al foglio –
ogni piccolo dettaglio
del soffitto del teatro – assurdo -,
come in un prodotto finito,
grondante di china scura
sulla volta bianca d’una cattedrale
e le pareti d’ocra.
Nota bene, il bacio
d’uno spartito rubato,
e i ghirigori confusi
nell’incrocio dei pentagrammi dipinti
sulla schiena scorticata del solista.
Nota bene, ciò che resta
d’una mosca e delle viscere,
delle macchie di vino incendiate
per riscaldare il suono gelido
della nota aspra
sulla scena in dissolvenza
del solista
nel suo epilogo in “the end”.
Fuga
Un giorno venne il tempo della fuga,
la fuga nel tempo
e nelle sue taumaturgie
che strappano chiodi
da tempie e rimarginano
cicatrici antiche.
Immaginavo questo tempo
trasformare in stanchi ricordi
memorie sofferte
ed ogni oggetto
in materia morta.
Ho vissuto quel tempo,
ne ho percorso le strade
nell’ultima dimensione
del semicerchio d’illusioni.
L’ho attraversato
per scoprirvi i dettagli
d’ogni cosa abbia guardato
e non ho mai visto.
Ho ritrovato lo stesso tempo
dietro le finestre chiuse
le porte serrate,
le palpebre sugli occhi neri.
Volevo Tempeste
La risacca è l’ectoplasma sonoro,
melodico, evasivo, che ovatta
gli spazi ed esclude altre esperienze.
La brezza è il contrappunto pulsante,
ossessivo, sull’infinita stanchezza
della notte esangue e di polvere.
Gli inefficaci bromuri si versano
sul sonno insonne, e improvvisano
le oscure danze d’intrattenimento,
con le concentriche lente involuzioni
dell’erosione del sogno e dello scoglio.
E non basta lo stanco fruscio di siepe
ad evitare i fragorosi silenzi
mentre lancio lo sguardo e il desiderio
oltre la coltre nera e l’orizzonte,
verso l’irraggiungibile cornucopia
del maremoto, dell’uragano, della
tempesta, del tornado, dello tsunami
che scuote il mare, le coscienze e cancella
l’angoscia oppressiva della calma piatta.
Liberazioni
Mi sorpresi di quel sogno senza sonno
del riconoscervi i giochi insoliti
del risveglio esangue e soliloqui
per vie notturne e deserte d’ascolti.
Le chiare trasparenze rievocate in
quel ricordo, non celano affatto il
nuovo sogno che rende così diverso
pensare di trasformare il destino.
Di più, mi colpisce quella pervicace
strana assenza del capire s’è ancora
un gioco d’azzardo tornare indietro
a riflettere su risposte non date,
per trovarvi, poi, solo prospettive
false di ripiego nelle inutili
riletture delle stelle o sul fondo
degli occhi d’una bambola di pezza,
o provare a scansare vaticini,
ed accettando l’idea del viaggiare
alla deriva, ignorarne l’attesa
per l’ignoto oscuro approdo finale.
Così, all’essere servendo senza le
certezze che si richiedono al caso,
libererò la rincorsa alla notte
per immolarmi, insonne, al mattino.
Una nota
Volevo una nota, la nota distratta
della notte, la nota del sax di Coltrane
la mia cosa preferita graffiata su
un tasto, un tasto teso più in alto,
sul soffitto del teatro dell’assurdo,
come in un prodotto finito, grondante
di china scura sulla volta bianca
d’una cattedrale e le pareti d’ocra
Volevo una nota, la nota stirata
di Monk sul cappello sbattuto per strada
dal vento di un pomeriggio deserto
sull’asfalto bagnato del tempo andato,
la nota incorniciata accerchiata
dal perfetto contrappunto del tappeto
di velluto rosso, anzi il notabene
la nota in fondo al foglio, in fondo.
Volevo una nota, il bacio di uno
spartito, rubato, ghirigori confusi
nell’incrocio dei pentagrammi dipinti
sulla schiena scorticata d’un solista,
la nota atonale, ciò che resta d’una
mosca e delle viscere, delle macchie
di vino, incendiate per riscaldare
il gelido suono del gruppo dissolto.