Al Teatro Argentina di Roma, dal 15 al 27 ottobre 2019
Tradurre a teatro un testo come Ragazzi di vita non è cosa semplice. Tradurre la vita a teatro non è cosa semplice, per quanto ci si sforzi di comprenderla attraverso la rappresentazione.
«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario» diceva Primo Levi, ed è in questa massima che è raccolto il senso dell’opera pasoliniana.
Il romanzo del 1955 suscitò non poco scalpore per il suo contenuto e per il linguaggio adoperato: per la prima volta Pier Paolo Pasolini parlava in un libro della gente comune – il sottoproletariato – considerata l’ultimo gradino della classe sociale. Ma se oggigiorno ciò non è più uno scandalo grazie alla globalizzazione, all’epoca un intellettuale che sceglieva di dar voce e spazio ad una parte della società considerata da tutti come non società suscitò non poche polemiche, critiche e pregiudizi. Se poi il gergo usato dai protagonisti (il dialetto romanesco) intercalato da parolacce – allora censurate, censura tuttora vigente nelle edizioni recenti del testo – accentuava questa “differenza”, tanto peggio.
Il grande intellettuale, poeta, regista, sceneggiatore e drammaturgo bolognese dedicò la sua opera a uno “spaccato di vita” che tutti – politici, borghesi, letterati, critici – si rifiutavano di ammettere, di conoscere e di accettare, ma soprattutto si rifiutavano di guardare e scoprire che, in fondo, quelle povere anime erano come loro. È più corretto quindi affermare che il vero scandalo fu l’indifferenza, l’omertà da parte della borghesia del tempo. D’altronde Pasolini non parlò che di vita – il titolo del romanzo è emblematico –, la vera vita che si svolgeva nelle periferie di Roma, tra le borgate e dentro la città; una città diversa da quella che vediamo oggi, fatta di campagne, di case ancora in costruzione e di quartieri facilmente raggiungibili. Nel romanzo percorrere la Tiburtina, Pietralata, Acqua Bullicante, Il Prenestino, il Quadraro è roba semplice. Intorno ci sono le campagne, le fratte, il mondezzaio, il fango, sembra quasi che Roma la si possa percorrere in un giorno, persino giungere ad Ostia o ad Aprilia o a Latina è un attimo.
Massimo Popolizio, che firma la regia di questo spettacolo (in scena dal 15 al 27 ottobre al Teatro Argentina), rispetta fedelmente l’opera pasoliniana, eccezion fatta per alcuni salti temporali e la scelta di tagliare alcune scene presenti nel romanzo, restituendo al pubblico tutta la veridicità dell’opera, conferendole ampio respiro e dotandola di un esemplare lirismo scenico. Anche la scelta degli attori è una scelta accurata e sapiente così come quella di servirsi di una scenografia ridotta all’osso ma efficace. La simmetria tra le scelte di Pasolini nella scrittura del romanzo e quella di Popolizio di tradurlo a teatro sono molto simili: lo spettacolo di Popolizio trasuda attenzione e cura ai dettagli, ai costumi, alle luci, alle scelte delle parole e alla mimica dei gesti. Il lavoro di background, associato a quello degli attori, danno vita ad uno spettacolo potente, graffiante e al contempo drammatico, accrescendone ancor più la grandiosità del testo pasoliniano. Per la prima volta si assiste alla rappresentazione della vita a teatro sentita e vissuta con un pugno nello stomaco: gli attori si alternano nelle battute e nella narrazione, ora sono Il Riccetto, Il Begalone, Il Caciotta, Alduccio, Arvaro, Genesio e ora sono narratori (li accompagna per tutto il corso della storia Lino Guanciale, che fa solo da narratore): questo schema – corale – permette a chi assiste di calarsi perfettamente nello spettacolo, uno spettacolo appunto di vita.
Anche i dialoghi sono in dialetto romanesco, ma ciò che colpisce è la stupefacente bravura con cui gli attori in un unico afflato riescono a dar vita al testo di Pasolini: scrittura e parole si fondono e si confondono per sprigionare un capolavoro che, da più di sessant’anni ormai, è e sempre resterà tale.
Costanza Carla Iannacone