Trieste, Teatro Lirico Giuseppe Verdi, dal 29 novembre all’8 dicembre 2019
Dopo la fortunata tournée in Giappone – dal 25 ottobre al 10 novembre – nel corso della quale la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste ha portato con successo “La Traviata” in tredici città, la Stagione di Lirica e Balletto si apre in grande stile nella sede abituale, con ben due opere in programma (Turandot e Aida) che si alternano in questi giorni sul palcoscenico della sala maggiore, con notevole impegno da parte di tutti i professionisti coinvolti in un’organizzazione che aumenta ulteriormente il livello di complessità, già presente in una singola messinscena.
Ma il vero inizio è dato da “Turandot”, proposta nel nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste in collaborazione con Odessa National Academic Theater of Opera and Ballet.
Giochi di specchi visivi e ideali nascono in scena, si ribaltano nella buca dell’orchestra e da lì ritornano per spostarsi dall’allestimento agli interpreti; la crudeltà del fiabesco spinto fino alle più estreme conseguenze domina ogni cosa.
Lo si coglie già negli interventi del Coro di voci bianche “I Piccoli Cantori della Città di Trieste” preparati dal M° Cristina Semeraro e delle coreografie di Morena Barcone.
La scenografia e il disegno luci di Paolo Vitale richiamano all’inizio suggestioni di altri drammi
(Salomé di Oscar Wilde o certe pièce di Schnitzler, ma anche Berg o Schönberg) per passare a echi più prettamente grafici (il secondo atto può far pensare alle creazioni di Escher), che la musica amplifica integrandoli e dando loro senso compiuto.
Ma è la superba direzione del M° Nikša Bareza a permettere al pubblico di cogliere appieno la complessità stratificata nel tempo e nello spazio dell’ultima opera di Giacomo Puccini, presentata qui nella forma incompiuta, interrotta con la morte di Liù, ma non per questo parziale dal punto di vista drammaturgico.
Il verismo si arricchisce di sfumature espressionistiche in un libretto che, attraverso la musica si fa potentemente lucido nel rappresentare la prismatica natura dell’animo umano e i caratteri dei personaggi, apparentemente bidimensionali, si trasformano dando vita a figure dalle innumerevoli sfaccettature e, da mosaico bizantino, si rivelano rendendo visibile la rivelazione della loro interiorità.
La sofisticata regia di Katia Ricciarelli e Davide Garattini Raimondi riesce a integrare tutto ciò con notevole misura, sostenuta dalla densità simbolica dei costumi del Teatro di Odessa ripresi da Giada Masi.
Gli interpreti della prima hanno dato gran prova di sé in una lettura non facile, che pone al centro di tutto una sfida, quella tra Turandot (Kristina Kolar) e Calaf (Amadi Lagha) che si rivela un gioco al massacro sulle vite degli altri, una roulette russa che di romantico ha ben poco, dominata dal gusto del rischio più che da un nobile fine.
L’innamoramento di Calaf è un vero e proprio incantamento dal quale è impossibile risvegliarsi, soggiogato da una sirena che lo rende sordo ai richiami di tutti. Non Timur, l’anziano padre (Andrea Comelli); non Liù (Desirée Rancatore), la serva che per amore del giovane si fa carico della sopravvivenza di Timur. Il popolo (i cori dei due teatri diretti con rigore e attenzione da Francesca Tosi) prova a distoglierlo e così pure l’imperatore, padre della principessa (Max René Cosotti); ma tutto è inutile. La febbre del gioco lo ha preso.
Coerenti con il ruolo e il disegno generale dell’allestimento gli interpreti dei ruoli minori: il mandarino (Giuliano Pelizon), le due ancelle (Anna Katarzyna Ir ed Elena Boscarol) e il principe di Persia (Roberto Miani).
I tre dignitari, Ping (Alberto Zanetti), Pang (Saverio Pugliese) e Pong (Motoharu Takei), svolgono con abilità la funzione del coro della tragedia classica, attraverso un’interpretazione vivida ed espressiva, resa ancora più intensa da costumi capaci di esaltare la loro natura di personaggi doppi, da commedia dell’arte; un po’ giullari, un po’ coscienza popolare, ma pure cortigiani asserviti al potere dominante. Sono loro a rendere omaggio nel modo più sincero al sacrificio di Liù, la cui morte liberatoria spezza finalmente l’incantesimo, facendo scomparire le catene che tengono tutti legati.
La scrittura di Puccini si interrompe a questo punto.
Del seguito ci restano appunti, schizzi musicali del Maestro.
Ma, forse, è meglio fermarsi qui.
Paola Pini