L’era del teatro “contactless”

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In un  recente puntuale e condivisibile intervento dello studioso di teatro e drammaturgia Armando Rotondi, docente presso l’Università di Barcellona, si legge una  punzecchiatura, una provocazione al mondo del palcoscenico. L’invito di Rotondi in tempi di quarantena è di andare avanti lo stesso e nonostante tutto.

Si può fare teatro dunque  se i teatri sono chiusi? A questa domanda si sente rispondere da attori profesionisti, registi e addetti ai lavori che no, non si può. Il teatro è, a detta di molti teatranti, fatto di sangue, sudore, carne e saliva: il che renderebbe indispensabile, anzi ineludibile il contatto fisico tra attore e spettatore. Il teatro, secondo questa concezione e convinzione (arcaica e poco aggiornata)  non sarebbe dunque  un’arte puramente “visiva” come il cinema o la pittura. Piuttosto  avremmo a che fare con un’arte  del “tatto con” o “con-tatto” (vicinanza, accostamento, unione, contiguità, adiacenza ecc.) tra attore e spettatore.

Va da sé che questa interpretazione rischia di cozzare con le più recenti teorie del teatro  stesso, peraltro assai perorate dagli stessi fautori del “contatto” fisico tra spettatore e attore. Sono scorsi fiumi di parole sul concetto di “quarta parete”, lo schermo invisibile e immaginario  che deve venirsi a creare a  confine e separazione tra pubblico e palcoscenico affinché il teatro sia veramente teatrale, virtuale. Non mi voglio dilungare su questo aspetto “tecnico-filosofico” della questione poiché mi basta solo averne accennato per dimostrare come il teatro contenga anche il suo “doppio” (lo dice Antonin Artaud in un saggio che porta proprio  nome), ossia la possibilità anzi la necessità di una sua riproduzione in una realtà doppiata, riprodotta su un altro media.

Armando Rotondi giustamente e opportunamente nota che il teatro non si basa fondamentalmente sul “contatto” fisico tra attore e spettatore, ma sulla sua riproducibilità e adattabilità attraverso tutte le possibilità di rappresentazione offerte dalla realtà e dall’ingegno umano. Un balcone, un bidone di vernice su cui salire per monologare, una sedia, uno schermo televisivo, il display di un tablet,  lo schermo di un cinema o di un telefonino: tutto è buono per fare teatro. E chi lo sa fare,  può farlo attraverso lo strumento più adeguato e immediato che gli offre il suo tempo.

La questione  non è di lana caprina o occasione di un dibattito che risulterà inutile quando “tutto” rientrerà nella normalità. Dubito infatti che la situazione legata al coronavirus (mi scuso per il lapsus più o meno voluto, intendevo il coronavirus) si normalizzi. Qualunque cosa accadrà,  nulla sarà o tornerà come prima. Avremo a che fare con cambiamenti sostanziali nella nostra vita, nei comportamenti  e nelle abitudini, mutamenti che saranno comportamentali ma anche e forse soprattutto culturali. Di qui la necessità di abbandonare l’idea fissa,  protoideologica, del “contatto fisico” tra attore e spettatore e tra gli spettatori stessi – se c’è bene, se non c’è pazienza -, per andare incontro ad una riformulazione dei rapporti nella nuova realtà imposta dalla crisi.

Giustamente Rotondi invita a non bloccarsi, a non fermarsi alla ricerca o in attesa del “contatto” perduto a causa del virus. Bisogna insomma  impegnarsi a cercare o,  se necessario, inventare  nuove forme di “contatto” che bypassino, aggirino la forma del “rapporto fisico” e creino i presupposti e le strutture del rapporto “visivo”. Il quale è un’altra forma di contatto, indubbiamente,  rispetto all’approccio fisico con l’attore che ti sputa addosso, non per questo però meno “intellettuale”, “colto”, “dialettico”.   Magari sarà più fondato su una correlazione dialettica basata sulla parola, oltre che sull’immagine: ma la parola è sufficiente a fare “teatro”? La risposta  non può che essere affermativa: il radiodramma ad esempio è una forma di teatro nobilissima che affianca e arricchisce l’offerta visiva del teatro senza contatto fisico, contacless, per usare una anglicismo.

Naturalmente non tutti gli artisti si arrendono in tempo di quarantena. Pur lamentando perdite di spettacoli e naufragi di progetti il mondo del teatro tende a risorgere dalle proprie ceneri all’insegna del famoso motto: quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.

Di esempi “positivi” (nel senso buono della parola, virus a parte) ne potrei fare molti. Ma ce ne è uno in particolare che cito perché mi riguarda anche da vicino. Uscirà a giorni un film scritto e diretto da Tiberio Ensoli dal titolo accattivante “La sera alabastrina” interpretato da bravi attori di teatro (Francesca Peuzzi, Andrea Salierno, Valentina, Boleto, Sandro Calabrese). Non dimentico certo tra i protagonisti si annovera Melania Fiore perché è proprio lei l’esempio che mi chiama in ballo cui accennavo.

L’attività di Melania Fiore prevalentemente teatrale, con poche ma importanti scorribande nel cinema – come la partecipazione a “La grande bellezza” –  ha subito con i provvedimenti della quarantena uno stop che avrebbe steso un cavallo di razza. I suoi preparativi ai nuovi  debutti per ben tre spettacoli da far girare come L’intervista ai parenti delle vittime  di Giuseppe Manfridi, il mio Beatrice risponde a Dante  (spettacoli che l’hanno vista protagonista nelle precedenti stagioni) e il pluripremiato e ammirato testo da lei stessa scritto oltre che interpretato Partigiana,  sono stati vanificati. Idem la ripresa de La straniera, il suo spettacolo su Anna Maria Ortese che aveva convinto la scorsa stagione. Interrotta anche l’attività didattica di Melania che teneva stage teatrali in alcuni istituti romani. Ma ora l’attrice si ripropone con una brillante interpretazione “drammatica” oltreché cinematografica che nulla toglie al suo contest teatrale, anzi aggiunge.

Alcuni trailers del film  mi suggeriscono infatti  la prima idea di una scrittura teatrale per immagini, opera in cui peraltro la corporalità assume un ruolo determinante (Melania interpreta il ruolo di una prostituta o escort che si mette a disposizione per pagarsi gli studi). Come se il teatro in definitiva tendesse a rigenerarsi e a riaprire il discorso attraverso un altro media che probabilmente in questo caso non sarà il cinema, immagino, visto che anche la sala cinematografica comporta la presenza fisica impossibile in tempi di quarantena, bensì i nuovi social come facebook o youtube.

Non posso fare a meno di concludere che mi ritengo un pioniere e quindi fautore  di questo passaggio, di questo salto di specie dal teatro al media virtuale coi miei  film teatrali dal 1998 al 2005 (mi riferisco in primis a Un mostro di nome Lila  con Eva Henger e Arnoldo Foà  che debuttò a Locarno nel 1998). Non posso perciò  fare a meno, ora più che mai, di testimoniare con Armando Rotondi la necessità di questo adeguamento, aggiustamento del teatro al ventaglio di possibilità offerte dalle nuove tecnologie digitali all’insegna del motto che conio seduta stante e a futura memoria:

se lo spettatore non va a teatro, il teatro vada dallo spettatore.   

Enrico Bernard        

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