LA METAFORA DELL’AUTORE “STONATO”. Riflessioni in margine ai testi che pervengono ai concorsi di drammaturgia

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Solitamente le svolte epocali danno luogo a innovazioni sia tecnologiche che creative, talvolta a vere e proprie rivoluzioni etiche, sociali, morali, artistiche.
La creatività del nostro tempo di passaggio tra il XX e il XXI secolo ha del resto realizzato quell’immensa rivoluzione tecnologica che si definisce “era digitale”, insomma un complesso di cambiamenti ed evoluzioni che consentono oggi all’artista, in qualsiasi campo, il massimo livello di libertà non solo creativa, ma anche produttiva e distributiva.
Paradossalmente però l’arte, almeno fino a questo scorcio di secondo decennio del duemila, è rimasta più o meno al palo: si muove poco nell’ambito del cinema, della letteratura e, nel nostro caso, del teatro. Anzi si assiste ad un progressivo declassamento del livello qualitativo della produzione artistica in genere, e drammaturgica in particolare. La provocazione pirandelliana secondo la quale può definirsi “artista” solo chi crea “nuove forme” sembra rimanere per ora in naftalina. Eppure la possibilità di ingegnarsi e realizzare il “nuovo”, nella fattispecie il “nuovo teatro”, il teatro dell’era virtuale e digitale, è a disposizione di tutti, ma questa chance viene poco sfruttata o ignorata, quando addirittura non resta incompresa.
Il preambolo non vuole rappresentare una lamentela, ma la semplice osservazione – parlando di drammaturgia – che, pur non mancando testi e opere degne (pochine per la verità), è quasi assente il “nuovo”. Basta scorrere i cartelloni dei festival: un tempo all’avanguardia nella ricerca di idee, oggi sono ridotti (Spoleto in testa e gli altri tutti a seguire) alla scimmiottatura – non sempre in meglio – dei cartelloni dei teatri stabili, talvolta con cadute – in peggio – nella programmazione televisiva e nel dibattito in piazza sul modello delle obsolete e ormai abbandonate dal pubblico trasmissioni politiche.
Questa situazione di stasi e di lento incancrenimento della produzione creativa si percepisce chiaramente dai testi che pervengono alle commissioni di lettura dei premi. Tengo a precisare che tra il Premio Fersen, il Calcante – in entrambi sono in giuria – l’attività per riviste varie e l’Enciclopedia degli Autori, ho modo di leggere un trentina di copioni l’anno: che non sono moltissimi, ma neppure pochi. Diciamo che rappresentano un campione sufficiente per un’analisi fondata della produzione drammaturgica nazionale.
Imperversa nella maggior parte dei lavori la malattia del “contenutismo” e del “documentarismo”. Al che mi verrebbe da esclamare: signori autori, non basta adottare un nobile tema, un argomento, un contenuto insomma per scrivere un buon testo che, piuttosto, scaturisce dall’equilibrio – lo dice Calvino – con l’invenzione di una forma “strabiliante” e “meravigliosa”.
Al documentarismo e al contenutismo becero (ossia piatto e privo di sostanza formalistica) si aggiunge spesso la semplificazione della struttura teatrale in forma di monologo.
Molti testi ormai vengono infatti scritti in forma di monologo. Ma anche qui c’è da discutere. Sinceramente capisco – essendo io stesso in gioco come autore – che la dimensione “semplice” da un punto di vista scenico e quindi produttivo del monologo possa facilitare la messa in scena. Tuttavia anche il monologo sottostà a delle leggi drammaturgiche imprescindibili. Il personaggio parla ad alta voce: perché? Con chi? Il monologo della tragedia classica è solitamente rivolto al Dio: tragedia è il canto del capro espiatorio. Ma la vittima umana che sta per essere sgozzata sull’altare di Dioniso e al quale si rivolge prima di morire è un’ottima giustificazione del “parlare ad alta voce” per farsi sentire da orecchie lontane. Se però a questa struttura togliamo la divinità che dovrebbe prestare orecchio, dobbiamo sostituirla con qualche altra entità: una confessione al prete, al poliziotto, ad esempio. Una farneticazione o monologo interiore, passi pure. D’accordo: il bla-bla rivolto al pubblico può assumere valenza letteraria, ma certamente non teatrale.
Mi si dirà che esiste ormai una forma di teatro di narrazione (Paolini, Celestini) che dimostrerebbe esattamente l’opposto. Le cose però non stanno così: è ovvio che se prendo un romanzo di Thomas Mann (o Kleist come fece Paolini all’esordio) e lo leggo sul palcoscenico , vuoi per la bellezza del testo vuoi per l’abilità dell’attore che esegue la lettura più o meno memorizzata, anche in questo caso sto compiendo ovviamente un’operazione teatrale. Ma la domanda è: la narrazione teatrale rientra nell’ambito della letteratura o della drammaturgia e del teatro? Anche a voler dire che siamo nella zona di confine, border line insomma, ebbene ciò significa che non stiamo facendo “completamente” teatro, bensì una forma di spettacolo efficace quanto elementare che si può applicare al testo di Celestini come al romanzo di Kleist: non è cioè una forma nuova che nasce con un nuovo testo e che vale solo per esso. Insomma, non è e non potrà mai diventare una nuova forma di drammaturgia.
Da queste troppo sintetiche considerazioni nasce la riflessione che il testo drammaturgico dovrebbe nascere anzitutto da un punto di vista formale: l’incontro con il contenuto è istintivo e imperscrutabile. È insomma come se la forma cercasse il suo contenuto e viceversa come se il contenuto stesse perennemente alla ricerca della sua forma per esprimersi: lo dice Verga nella autoprefazione a L’amante di Gramigna e lo ripete Calvino (l’occhio esterno e l’occhio interno dello scrittore) nei saggi di Una pietra sopra.
Il discorso apre le porte a considerazioni troppo lunghe ma che sarebbero imprescindibili: per esempio circa la questione del linguaggio. Infatti se la forma deve accogliere ed esprimere un contenuto e il contenuto deve trovarsi a suo agio nella forma, ebbene il veicolo di questa trasmissione – o se vogliamo di questa “collaborazione” – tra forma e contenuto è il linguaggio,il codice espressivo.
Nella mente dell’autore, nel momento tra cui scocca la scintilla tra la forma con cui egli vuole esprimersi e il contenuto che egli intende esprimere, scaturisce un’immagine che è alla base del Linguaggio tramite il quale il Come e il Cosa diventano Espressione. L’immagine insomma – ancora una volta è Verga a spiegarci il meccanismo creativo – si mette in movimento, si fa “storia” creando la “drammaturgia”, ovvero l’azione che segue il big bang del primo atto creativo. Il tempo e lo spazio “diventano” un prima ed un dopo, un inizio e una fine, una causa ed un effetto, un principio e uno scopo. Quindi il linguaggio visivo implica la dialettica: all’inizio tra forma e contenuto, successivamente il linguaggio rende comprensibile il cosa si scrive e perché si scrive (principio e scopo). Questa dialettica ha bisogno del dialogo e il dialogo ha bisogno della lingua (qualsiasi siano i suoi strumenti: parole, segni, segnali di fumo, gesti, movimenti eccetera) perché se un atto creativo (la scintilla) ha uno scopo (per questo il contenuto entra in azione tramite la forma), ne consegue che lo scopo stesso possa e debba essere “comunicato”.
Potremmo discutere a lungo l’argomento. Tuttavia, indipendentemente dal fatto che si possa essere più o meno d’accordo su un punto o su un altro del discorso che ho qui abbozzato rapidamente, resta il fatto che qualsiasi autore che abbia scritto o voglia scrivere un testo teatrale non può che convenire che la drammaturgia ha poche regole basilari, ma una regola – questa sì! – resta fissa: la distruzione e ricostruzione delle sue forme su basi sempre nuove, rivoluzionarie, in grado di esprimere sempre in “altro modo” il contenuto.
A questo proposito posso congedarmi con un esempio semplice ma assai convincente: chi legge un testo di Pirandello o di Betti, piuttosto che di Eduardo o Dario Fo potrà dire fin dalle prime battute “questo è Pirandello” oppure “questo è Eduardo” e via discorrendo. Mentre invece i testi che si diffondo in questo primo scorcio di secolo sono (quasi) tutti omologati e livellati (purtroppo in basso) e stentano a distinguersi drammaturgicamente gli uni dagli altri.
Pirandello, per sottrarsi alle accuse dei critici che se la prendevano anche con Goldoni, diceva che il grande autore deve “scrivere male” perché solo chi esprime il nuovo è un vero autore diverso dagli altri e “stona”.
Attenzione comunque, il primo verso introduttivo agli “Ossi di seppia” di Montale prende le distanze dai “poeti laureati” ovvero dall’eccesso di teoria. La concezione teorica non deve infatti farci perdere di vista un dato: che l’arte è intuitiva, non contemplativa, nasce dall’ispirazione e non dallo studio. Il miglior critico o teorico del mondo potrebbe essere il peggior autore della storia. Quindi la “vena” artistica, la capacità di costituire un’espressione creativa sulla base di forma e contenuto, è assolutamente spontanea e innata. Come il coraggio di Manzoni, se uno non ce l’ha non se lo può certo dare. Autori non si diventa, insomma, si nasce!

Enrico Bernard

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