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Tre paradigmi di dannazione e redenzione nel cinema di Abel Ferrara. Di Massimo Triolo

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Un’istanza e una vena religiosa potentissime, il senso della deriva e della dissipazione, l’intrecciarsi di temi filosofico-esistenziali che pertengono destino e senso del riscatto, problematiche prese di coscienza e responsabilità presso il proprio agito in chiave morale… Gli spettri della mente in lotta con la cogenza di una dimensione decisionale che si prenda carico con lucidità di un senso identitario scevro di alibi per le proprie colpe… Questi sono solo alcuni temi che si dibattono con feroce e spesso agonica, continua reviviscenza, nell’agone esistenziale che figura nei film di Abel Ferrara. Un cattolico, questo regista, mai dogmatico e sempre sul filo della dannazione e della più tragica, auotinflittiva dissolutezza, il quale affronta in modo problematico le questioni che investono un umano fin troppo umano. Prendere in esame il suo cinema non è cimento semplice: c’è una cristallina forma di rigore che attraversa la sua filmografia anche nelle sembianze apparentemente più caotiche e magmatiche, lutulente e dannate. Può esserci spazio per la salvazione nella catena deterministica degli eventi di una vita, può immanere ad essa un clinamen, o chiamiamolo pure ierofanicamente, un libero arbitrio tale da inverare uno scarto di discrezionalità e libertà di scelta quasi sacrali e numinose, nel marasma di una vita che si oppone graniticamente ad un’attribuzione di senso e al grido che suscita tanta sofferenza che ne è apparentemente priva – tale da sembrare desolatamente gratuita? Pare che i personaggi di Ferrara vivano tutto il calvario di esistenze nelle quali la scelta è limitata a uno spazio esiguo dalla crudezza di esperienze che li portano a sperimentare spintamente tutta la scala deteriore delle nefandezze che strisciano nel ventre infetto della natura umana, ma in cerca di una forma di redenzione che li riconduca sul suolo perduto di una dimensione (preadamitica?) di innocenza e riconciliazione con Dio e con se stessi. La colpa non è originaria, atavica, ma un fatto di questa esistenza che reclama responsabilità precise: sembra essere avvertito, Ferrara, delle questioni che poneva tanto personalismo francese; e sembra sapere, in aggiunta, che, come scriveva il filosofo Max Scheler, la vita di un uomo è sempre di più della somma dei singoli istanti che la compongono. Una visione olistica che la innalza al di sopra di una mera cronaca degli atti e delle intenzioni, che gli restituisce infine una dignità e uno spessore che esorbitano la scala di giudizio che saremmo tutti portati ad applicare con strabismo morale più sugli altri che su noi stessi.

Come sembra suggerire il suo “The Addiction”: può esserci davvero dopo gli olocausti del Novecento, una ragione per celebrare l’umano sul piano del senso di fragilità e della tenerezza verso questa fiammella di vita che non arriva a fugare che una porzione esigua di tenebra anche quando trasfusa d’anima e compassione, solidarietà e, appunto, senso di riscatto? Può il singolo, in questa nostra isola di democrazia, questo giardino incantato che ha tanta responsabilità diretta presso i soprusi inumani della guerra e delle persecuzioni, affrancarsi dalla colpa di alimentarli con la propria stessa vita e condotta? O non è proprio lui un collaborazionista del peggio, non sono in fondo le tasse che paga al Governo una sovvenzione materiale a quei soprusi, e non è forse la sua vita da privilegiato, magari con l’alibi di una puntuta coscienza radical-chic, l’immagine stessa della perpetrazione del male? Come può affrancarsi da esso, infine, senza prima averlo sperimentato nel proprio corpo, nel proprio sangue – che è esso stesso memoria – ancora prima che nella propria coscienza? La risposta sembra essere questa: se il male non è sostanziabile ontologicamente, non esiste cioè come entità se non nelle minutaglie esistenziali di vite che lo patiscono senza riuscire ad assegnargli un senso o una sorta di escatologia, allora la risposta è sempre “sì”, l’umano si può celebrare e inverare; ma è una risposta con delle riserve, problematica, carica di interrogativi e gravata dal fardello di una perduta innocenza, del soffrire – persino di soffrire –  di personaggi che sono anti-eroi in senso puro.

“Il Cattivo Tenente” di Ferrara è un uomo sordido, dedito al vizio, che abusa la sua posizione di uomo di legge per nutrire una vita egoistica e senza freni morali, ma come nella paradigmatica morte di Ivan Ill’ič, si guadagna un “lasciapassare” per il paradiso con un singolo gesto di pietà e misericordia davvero oblative, fuori dall’utile, che nessuno spettatore si sarebbe mai immaginato seguendo il corso della pellicola… e in zona Cesarini, potremmo dire, cioè poco prima di morire esso stesso martire, ma certamente più umano che santo.

In “Black Out” assistiamo ad una proliferazione quasi metastatica di immagini apparentemente giustapposte e a uno scomposto collage di momenti della vita del protagonista, che ne rispecchiano la condizione alienata e smarrita in un dedalo caotico di esperienze, impressioni, capziosi autoinganni. La scomposizione dell’unità aristotelica di tempo, luogo e azione, ha portato parte della critica a ravvisare nel film un carattere dispersivo e farraginoso, ma essa è perfettamente funzionale alle condizioni destrutturate del protagonista: una stella del cinema ossessionata da un giorno fantasma della sua vita che non riesce a riportare alla contezza di sé e che come un immenso, nero rimosso alimenta un trauma e una nevrosi che lo conducono sul ciglio del baratro. Quando questi realizza di aver ucciso barbaramente una ragazza innocente come una squallida versione di superuomo alla rovescia, mesmerizzato dalle droghe e dall’eccesso in ogni sua forma, le mani che stringeva in una morsa – solo in sogno: ma shakespearianamnte, non siamo noi stessi della stessa sostanza dei sogni? O non sono forse i sogni della stessa sostanza della nostra esistenza di spettri che cercano sempre di incarnarsi in fatti e scelte che sfuggono loro? –, le mani che stringeva, dicevamo, in una morsa assassina sul figlioletto che mai ha avuto, divengono veridicamente la morsa che aveva stretto sul collo di quella giovane innocente nel giorno perduto, smarrito in un tourbillion di alibi fasulli e stato di incoscienza dei propri giorni mal spesi. A questo punto, in una delle scene finali più potenti del cinema, non potendo più giustificare la propria condotta autistica e svincolata dalla portata reale del mondo e delle relazioni che lo circondano, il protagonista si avvia verso l’ultima deriva, nuotando in mare aperto verso il largo per trovare una morte che è la sola goccia di luce e consapevolezza in una vita che già era perduta.

Massimo Triolo

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