“Un’opera per Gino Severini”. Il 9 ottobre inaugura la mostra dedicata al Maestro del Novecento

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Sarebbe opportuno, o quanto meno proficuo, nel prendere in esame queste due pellicole di Allen, spendere alcune parole riguardo a certo irrazionalismo filosofico per come si è sviluppato a partire da Spinoza fino a arrivare a Nietzsche e Schopenhauer … In modo diverso questi grandi pensatori hanno espresso la centralità della volontà o del “voler essere”, dell’intuizione (intesa non come inferenza) e attribuito alle grandi costruzioni metafisiche figlie di un primato della ragione, un ruolo malinteso se non deteriore. Ma come si inserisce il caso in questo quadro concettuale? Perché entrambi questi due capolavori del cinema contemporaneo, sembrano dichiarare a chiare lettere che non esiste un senso razionalmente inteso come direzione e attribuzione di significato che sia già insito nell’esistenza: esiste piuttosto (Nietzsche) un senso che creiamo ostensivamente e in maniera possibilmente non reattiva rispetto a modelli pregressi e attraverso un potente volere che esprima un pieno “sì” alla vita; o come in Schopenhauer, che afferma la molteplicità dell’esistente come uno incontro-scontro di diverse volontà e la volontà dell’individuo l’unico vero “automaton”, ma per il verso contrario rispetto a Nietzsche trova una soluzione a dolore e noia, senso di scacco, nel reprimere i bisogni che la volontà stessa detta con orba cogenza all’esistere. Sembrano essere ascrivibili a siffatti bisogni anche l’amore carnale e la passione figli dell’adulterio dei due protagonisti maschili, che in verità lo rimuovono chirurgicamente dalle proprie vite, a vantaggio di un ménage familiare insipido (la cosiddetta normalità) ma preservatore di diritti e agiatezze acquisite e a cui rinunciare sarebbe “illogico”.
Sarebbe troppo semplice ravvisare dei motivi superomistici nei due diversi protagonisti e azzardare anche un parallelo con “Delitto e castigo”, e tralasciamo per adesso le pur vere analogie in questione; ciò che però qui si profila è la compromissione di un orizzonte etico-morale che ponga l’uomo come fine e non come mezzo. Non a caso la massima in argomento e presente nella Ragion Pratica di Kant, viene spazzata via da una visione nichilista, pessimista e irrazionalista. Se da un lato abbiamo un uomo affermato di uno status sociale alto e con grandi possibilità, stimato da amici e colleghi come uomo retto e amante della famiglia (Judha Rosenthal nel film: interpretato da un compassato e suggestivo Martin Landau); dall’altra abbiamo un parvenu mezza tacca che per una combinazione fortunata riesce a farsi amare da una giovane rampolla di una famiglia bene dell’Upperclass. Cosa cambia? Poco, in verità… Nel primo caso il movente del delitto è la conservazione di diritti e vantaggi acquisiti entro un quadro altoborghese e tartufato; nell’altro abbiamo un anodino arrampicatore sociale che è ancora in “odore” di condizioni svantaggiate e che vuole cancellarne persino il sentore con una scalata che fa leva sull’amore di una donna che ritiene insipida ma può farlo salire di ruolo col possesso di privilegi, beni materiali di ogni tipo, e un’agiatezza orami acquisita come un vitalizio simile a un obolo per l’amore (apparente) che indirizza all’ingenua moglie. In questo quadro l’attrazione per la procace Nola Rice (Scarlett Johansson) non può che essere una sensuosa parentesi in una vita in cui la relazione infuocata tra i due è sacrificabile allo staus quo sociale ed economico guadagnato dal protagonista (un Tom Hewett interpretato da un bravo Matthew Goode). In aggiunta egli non sceglie per lungo tratto, mostrando un grado di passività e incapacità decisionale tali da generare una cancrena nella sua vita, che deve poi essere rimossa solo con un’amputazione di una sua parte: ovvero la donna per la quale si è fatto fedifrago. Quand’anche si pensasse, e la simpatia dello spettatore va in questo senso alle vittime) che i due assassini debbano subire una sorta di contrappasso per il male commesso, la risposta di Allen è in entrambe i casi, che la vita non assolve né punisce, ma è quella cosa che resta insensata finché non si cali in essa un nostro senso anche attraverso la più luciferina delle volontà. Ciò che colpisce è che qui l’agito delittuoso sembra essere giustificato (agli occhi di chi lo compie) pensando l’esistenza di un altro individuo come sacrificabile, letteralmente, al confronto della sopravvivenza della propria condizione sociale… Esattamente come nel Raskolnikov di Dostoevskij, aleggia sui due protagonisti una forma di ethos deteriore figlia di convinzioni patologicamente superomistiche… E non è forse lo stesso spettro della Shoà? Senonché il personaggio di “Crimini e misfatti” è ebreo egli stesso e anche soggetto a visioni sconcertanti e accusatorie da parte della propria famiglia che innescano non una sospensione del giudizio, ma una voce morale più umana e inascoltata a vantaggio di un machiavellismo individualista.
Il caso, questa caotica scozzata di carte del destino, sembra essere, soprattutto in Match Point, l’ultima parola su più vite: per caso Tom conosce la sua futura moglie tramite un rampollo altolocato che prende da lui lezioni di Tennis, per caso si imbatte nella sua nuova fiamma per cui si improvvisa adultero e che deciderà di eleminare al pari di un prescindibile ostacolo, per caso il suo delitto rimane impunito. Allen sembra voler dire che se un senso morale esiste non è un fatto, non è niente di concreto e oggettivo sul piano della chiave ultima di tutti gli eventi umani: si può scegliere di abbracciarlo o meno (e può fare la differenza ma non come una cosa in sé, risposta razionalistica o ontologica) senza però aspettarsi che sia determinante se non per se stessi e la propria coscienza.
La coscienza, così, sembra essere assieme a quelle materiali, la vera vittima dei due film, passando come assolutamente razionali, anche se non morali, le scelte delittuose dei protagonisti maschili, ma secondo un razionalismo che la esclude come fatto rilevante nel decidersi per sé stessi e per gli altri.

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