“DUNE”, LA LITURGIA SOLENNE DI DENIS VILLENEUVE

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Ci ha messo un anno più del previsto, Dune, a mostrarsi. Ma è stata un’attesa che abbiamo concesso volentieri al suo regista, Denis Villeneuve, perché questo remake, o questa nuova trasposizione dell’imponente romanzo di 700 pagine di Frank Helbert, non avrebbe potuto imprigionarsi in schermi più piccoli di quello cinematografico (schermi che la pandemia mondiale ha imposto e nel nostro Paese sta ancora imponendo), o pensare di non poter pulsare denso e vivido nelle vene dell’esperienza di una visione collettiva come quella del cinema. Dune è un’opera così grande e ampia da abbattere ogni barriera possibile: è un film libero, ed è la libertà che solo il cinema può concedere.

La trama bene o male la conoscete. Lo svolgimento narrativo è piuttosto lineare e semplice, non si affastellano chissà quali vicende o sottotrame; se ci sono, sono quelle che partono e si sviluppano dentro i personaggi, nei loro sogni, nelle loro ambizioni e nelle loro riflessioni esistenziali: principalmente dentro Paul, figlio del Duca Leto, erede al titolo di duca di Atreides e governatore di Caladan, e il “messia” profetizzato. Per questo motivo in Dune si fondono potenza visiva e senso dello spettacolo cinematografico con introspezione filosofica e psicologica. Davanti all’opera di Villeneuve si rimane sbalorditi per l’esattezza e la bellezza delle immagini: è nei confini dell’inquadratura che si realizzano i conflitti narrativi, gli sviluppi e le sorprese della storia, che si trovano i sensi di uno sguardo che si riscopre primordiale, originario, in quanto contemplativo e meditativo. Si resta in ascolto di domande e dubbi, di natura politica e ambientale se vogliamo, ma ancora di più, che riguardano la natura umana, la fecondità delle relazioni, il senso dell’esistenza e anche, in un ultimo, l’amore: o almeno, il presagio d’amore, la nostalgia d’amore. Che è sempre chiave, grimaldello, fine: narrativo, della visione, ma anche, appunto, della vita.

Villeneuve prosegue in un cammino che è partito da Arrival, per passare da Blade Runner 2049 e approdare a Dune: mostrando una fantascienza del futuro che parla del presente, delle discriminazioni razziali, dello sfruttamento sull’uomo, sul Terzo Mondo, di quello sull’ambiente e le risorse naturali, del potere politico che non ha prospettive altre, alte o lontane, che si ferma a dove può arrivare la vista, o anche meno, senza alcuno sforzo in più; una fantascienza psicologica e riflessiva, sempre più immersiva, sempre più solenne. Ecco, Villeneuve celebra una liturgia. Ogni inquadratura è un canto lirico, ogni movimento di macchina un oscillare del turibolo d’incenso, ogni campo lungo e ogni primo piano, un inginocchiarsi di fronte al mistero del mondo e dell’uomo. Non sarà privo di difetti, forse di ritmo, di durata di certe situazioni, di serietà non richiesta, ma è un Cinema raro il suo, un Cinema che non può terminare qui, che deve “essere solo l’inizio” come ci dice Chani Kynes alla fine del film. Perché a questa liturgia manca il sacrificio d’amore, e manca la benedizione finale.

Simone Santi Amantini

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