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Svetlana Zakarova, sublime bayadère

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Il 28 gennaio 2022 al Teatro alla Scala di Milano

Sembrava di esser tornati in un’era pre-Covid, l’altra sera al Teatro alla Scala. Folla in piazza, code per entrare in teatro, attesa febbrile per La bayadère che portava in locandina – per una sola recita – Svetlana Zakarova, molto amata a Milano in coppia con Jacopo Tissi, primo ballerino del Teatro Bol’šoj. Sala del Piermarini stracolma, palchi e gallerie gremiti in ogni ordine di posto. E l’attesa non è stata vana: un entusiasmo simile non si respirava da tempo in teatro. La bayadère, coreografia di Rudolf Nureyev finora era stata rappresentata solo all’Opéra di Parigi per cui fu creata nel 1992; per la prima volta messa in scena sul palcoscenico scaligero, nella ripresa da Florence Clerc e Manuel Legris, attuale Direttore del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala. La Bayadère – è un grand ballet, creato da Marius Petipa basato su un classico indiano di Kalidasa, Sakuntala, rappresentato al Teatro Marijnsky di San Pietroburgo il 4 febbraio 1877, con non poche difficoltà, poiché non si poteva più invitare i grandi nomi della danza internazionale (ossia italiane e francesi), mentre le ballerine russe, pur tecnicamente dotate, non attiravano il pubblico. La prima rappresentazione registrò il tutto esaurito, grandi applausi alla protagonista e recensioni sostanzialmente positive dalla critica, con lagnanze per la superficialità storica. La Bayadère non sopravvisse al ritiro dalle scene della Vazem, prima interprete e scese nell’oblio. Nel 1900 il ritorno d’interesse, quando fu allestita per il ballerino Pavel Gerdt, Solor. La scena del Regno delle ombre geniale colpo inventivo di Petipa, trascina gli spettatori in un sogno esotico in cui pallidi fantasmi sorgono dalla penombra nei loro tutù dalle iridescenze perlacee, le scarne braccia coperte da bianchi veli d’eterea consistenza, fu finalmente presentata immersa nell’oscurità, ampliando da trentadue a quarantotto il numero delle ballerine. Al di fuori della Russia il balletto fu presentato per la prima volta dalla Compagnia del Kirov – Londra nel 1961- pur limitato al solo “Regno delle ombre”. Occasione per Rudolf Nureyev di fuggire in occidente. Per tornare in repertorio e guadagnare popolarità, La Bayadère dovrà attendere il 1980, quando Natalia Makarova creò la sua versione completa per l’American Ballet, versione referente (pur audace nel ri-creare il IV atto) di ripristino del balletto di Petipa. La Bayadère, riallestita nel 1989 per il Royal Ballet, con musica di Ludwig (Léon) Minkus nell’arrangiamento di John Lanchbery debuttò alla Scala nel 1992, primo allestimento scaligero del balletto e prima italiana assoluta. Da allora si sono succedute diverse riprese cui si è aggiunta quella di alcuni anni fa di Juri Grigorovich in tournée con i Complessi del teatro Bol’šoj. E’ ora la volta di quella creata da Nureyev a Parigi nel 1992, che un filo diretto lega a quella ancora in repertorio a San Pietroburgo, priva del IV atto, la distruzione del tempio cui l’edizione “Makarova” ci aveva abituati. Conclusione del balletto drammaturgicamente più credibile (anche se non sufficientemente suffragata da documenti) ma che non aggiunge molto, in puri termini di danza. Purtroppo, causa pandemia che ha fatto stragi anche in palcoscenico, la coreografia originaria di Nureyev non si è potuta godere in tutta la sua estensione, nella completezza di delle danze di carattere, soffrendo anche della riduzione nel Regno delle ombre. Luisa Spinatelli firma scene e costumi di questa nuova produzione, limitandosi a un allestimento “minimale” di semplici accenni al fascino di un gusto originale di un’India esotica, non andando oltre il classico fondalino dipinto. Compare è vero uno statico elefante (unico accenno all’aspetto esotico-monumentale fatto di sfilate e processioni e quadri decorativi alla corte di un Marajah) a ricreare lo sfarzo non visto della Parata del fidanzamento che porta in scena Solor, mentre il fascinoso atto “bianco” mostra un completo pauperismo di suggestione visiva. Costumi non esaltanti, con tutù spruzzati di verdi smeraldo e fucsia dai riflessi acidi, a volte d’impaccio (Nikiya I atto) e acconciature esagerate per i fachiri. Il risultato è più funzionale che convincente. Il Direttore Kevin Rodhes, deciso e incisivo sin dall’ouverture, striglia la partitura esaltando la mediocre musica di Ludwig Minkus, dalle nulle pretese sinfoniche e pompier senza remore. Accelera i tempi mantenendo il ritmo vibrante ma sempre e solo al fine di seguire e sostenere il ballerino di turno in palcoscenico. Minkus, eseguito con tal carica, s’intrufola nelle orecchie dell’ascoltatore divenendo occasione di obliare, per un momento, quello che stiamo vivendo. Jacopo Tissi entra in scena mostrando nobiltà di portamento che, unito a un physique du role ideale, che ne fa un fiero Solor di credibile espressività. Ottimo partner, “porta” molto bene, ma le prese non sono sempre efficaci. Buone le sue “batterie”, entusiasma nei manège, dotato di elevazione e discreto ballon, deve però rifinire alcuni aspetti della sua tecnica. Fachiro di belle pirouttes di Rinaldo Venuti, a prepare l’ingresso di Nikiya. Appare Svetlana Zakharova, salutata da un caloroso applauso di sortita, ancor più asciugata nel fisico, avvolta in abito che non la valorizza ma frena, incanta per la flessuosità dei movimenti, il mitico e proverbiale port de bras d’infinita estensione. Si resta impressionati da quelle braccia, dai gomiti ipertesi, incantatrice nella scena del fuoco del I atto a simulare il guizzare della fiamma come il contorcimento serpentino.  Nel seguente, voluttuoso pas de deux con l’amato irraggia pura felicità e gioia di vivere; l’intesa con Tissi è profonda e si traduce in linee flessuose, di mirabile morbidezza e plasticità, dettata da perfetta sincronia e capacità di “respirare” insieme: il corrispettivo del turbamento emotivo creato da un duetto d’amore nell’opera. Una festa per i sensi e degli occhi. Maria Celeste Losa è una Gamzatti più altezzosa che gelosa e vendicativa, nello scontro con Nikiya, non completamente a suo agio nel virtuosistico e fastoso grand pas classique del fidanzamento con Solor del II atto. La fusione con il partner, non idilliaca, Non sempre tecnicamente ineccepibile, ha dato il meglio nei momenti solistici della variazione con i difficili fouettés che la coreografia di Nureyev prevede. Ma chi domina il secondo atto è ancora la Zakarova, interprete ancor più intensa e drammatica nell’esprimere il dolore per il rinnegamento dell’amato: un caleidoscopio di sentimenti le trascorre sul volto, tradotte nella velocità nelle variazioni, rapinosi i suoi fouettés e i giri. Non esaspera la parte virtuosistica del ruolo, traducendo la tecnica in bellezza essenziale. Immutata la magia che il Regno delle Ombre crea al III atto – anche con ranghi ridotti di ballerine – per l’esecuzione di quel reiterato arabesque couchée premiato da inevitabilmente applauso. E l’ultimo pas de deux, con variazioni e coda, dove si rinnova la favolosa intesa e le scintillanti meraviglie tecniche mostrate negli atti precedenti. Un’apoteosi. Non resta che citare il resto del cast: l’Idolo d’oro di Mattia Semperboni scattante e muscolare, si fa notare per i suoi manege e per il legato; piacevoli Camilla Cerulli e Denise Gazzo, soliste d’Jampe. Briosa e sapida Agnese di Clemente, sprizzante simpatia nella Danza Manou e prima variazione delle Ombre soliste. Un concentrato di scatenata energia Domenico Di Cristo e Denise Gazzo nella Danza del tamburo mentre lo scultoreo Schiavo di Gabriele Corrado mette in mostra le sue capacità di porteur nel passo a due con Nikiya. Alto Bramino compassato quello di Giuseppe Conte e funzionale il Rajah di Mick Zeni. Si è apprezzato l’impegno del Corpo di ballo, ma nell’adamantino Atto delle Ombre si avvertita la precarietà nel raggiungere una perfezione formale e il rigore nelle linee. Festosissima accoglienza per tutti nelle reiterate chiamate al proscenio, con vere e proprie ovazioni per Tissi e Zakarova. Recita del 28 gennaio. Teatro alla Scala.

gF. Previtali Rosti

ph Brescia e Amisano

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