Nicola Romano, “Al centro della piena”

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La giovanissima casa editrice romana “Il ramo e la foglia edizioni”, mette a segno (ma non ci sorprende dati i trascorsi critici e letterari dei titolari Giuliano Brenna e Roberto Maggiani) un nuovo punto a suo favore con questa intensa raccolta (l’ottava della collana poesia) dello scrittore, poeta e giornalista siciliano Nicola Romano. Un libro questo di un autore che ha fatto proprio della poesia la modalità principe delle sue interrogazioni e che dopo questa cinquantina di testi circa in cui il suo dettato va a confermarsi pienamente tra riflessioni sul contemporaneo e accordi più personali, intimi, meriterebbe crediamo (andando di qui noi allora a rilanciare) un’antologia dettagliata del suo quarantennale racconto. Questo anche in considerazione del fatto della sua scomparsa (settembre 2022) tra l’invio del testo e la sua recente pubblicazione che è dunque  postuma in una lettura che, però (siamo d’accordo con la prefratrice Neria Di Giovanni) non andrebbe inficiata da questo, pur la poesia avendo in sé per la natura delle sue tracce, carattere predittivo e in qualche modo anticipatorio. In realtà, pur nei grovigli di un tempo caratterizzato anche da affanni di salute, quella di Romano resta sempre una figura ben viva nella piena disposizione alle permeabilità di uno spirito civilmente educato e dunque intessuto delle questioni sociali e culturali del suo tempo, e raffinato nella capacità d’affondo delle sue riflessioni fra spazi di un quotidiano convivere e personali aspirazioni, incarnazioni diremmo, all’interno di una sacralità di riferimento che sotterraneamente lo guida e lo ispira.

Chi scrive ebbe già modo di scriverne, era il 2017, risucchiato con forza entro una lingua e una modalità lirica non comune (in riferimenti che potremmo nobilmente ascrivere a Montale e Quasimodo) in cui , stiamo parlando di Voragini e appigli uscito l’anno precedente, la consapevolezza di un epoca e di una poesia ridotti a idoli di se stessi tenta di ricucirsi nel rovesciamento di una memoria che ha proprio nella cronaca di storie grandi e piccole il perché della sua parola (“sembianze di un documento d’’accusa- così ebbe a rispondere- che possa restare a testimonianza di un tempo, come il nostro, oltremodo vessato da angustie e da una quotidianità stizzosa”). Città-mercato, prendendo a prestito il termine da uno dei testi più incisivi di questa nuova raccolta, nel rimarco di  rincorse, di fagogitamenti dei bisogni in cui “ogni cosa fugge/dalle maglie slargate/ e restano soltanto/scartocciamenti e ingombri/le noie  e le oppressioni/(..)/e stordimenti fino a 100 giga”. Di una contemporaneità in lotta e lutto, di oppressioni, di una favola che sovente è quella del lupo (lui un cui testo è stato adottato dall’Unicef per una manifestazione sull’infanzia nel mondo) , avelli nella esatta definizione all’imbocco di quella piena in cui “ardua è l’impresa/d’imbroccare fessure/valutarne l’ampiezza/il doppio raggio dell’anima” e dove più forte è l’urlo nel verso a indicare “che un bisogno è vero/è vero il desiderio/di enumerare agi e mai disagi”. A questa dimensione poi  però, c’è, non parallelamente ma strettamente intrecciata, quella individuale dell’uomo, nel suo caso quella di un’età che avanzando sente con compassione  tutto il dissidio tra gli infiniti reclami di un’anima non paga e le dilatazioni ad arrendersi del desiderio entro la sensualità di una natura, quella della sua terra, che come lo ha cresciuto ora ancora nelle sue vibrazioni non cessa di accompagnarlo. Ed è sulla dualità di tale stato che va a muoversi l’ultimo dialogo di una poesia che ha nella ferma dolenza dei suoi sguardi, quella verità in più, insieme di remissione e credo, che ce la fa prossima.

Credo e remissione che trovano così, come accennavamo, perché già intimamente disposti, proprio nel sacro la risoluzione mai disattesa, pur nella lotta, pur nell’inevitabilità di interrogativi che quel credo fanno più forte, di uno spirito che sa riporre infine solo nel silenzio, verso il “centro delle cose”, il cuore del proprio affermativo smarrimento. Ed allora se nell’ultimo testo il lascito sembra provenire da una sclerosi  (“T’accorgerai per tempo/d’una fonia che raschia e senza metro/d’un settenario molle/e un po’ spuntato/un verso senza sangue/ e senza nerbo/che nella foga spinge/e non deflora”) pure, dietro, senza più  “aspettare lumi dalla sorte” ma nel “tramutare il rammarico in preghiera” a spingere infine non è che l’avverarsi “di risolvenze e parole” in quella pronuncia che più alta in precedenza già splendidamente a sé e al mondo lo ritrovava apparentato al tempo, nella meraviglia verso tutto ciò che è amore, nel suo unguento, dicendo “sei la necessità dei ciclamini”/ “tu sei il rimedio alle notti illuni”. Come in uno specchio allora volgendo indietro al primo testo (“Oggi la mia preghiera”) proprio nel suo riconoscersi, “scarto di paranza”, finalmente, entro quell’ accordo cui ora, di là, nel pensiero lo andiamo a risuonare, si fa d’Eterno la sua fame. Carattere questo anche per i suoi accenti civili e lirici di una poetica mai banale di cui, in conclusione, caldeggiamo la lettura.

Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2023

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