Killers of the flower moon, un’opera politica imponente che manca di epos e pathos

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Il petrolio erutta dalla terra come un getto di un geyser, e schizza sui volti sorridenti e sui corpi danzanti degli Osage, Nazione Indiana d’America: le immagini scorrono in rallenty, la musica incalza, scandisce il ritmo della scena e batte i tempi del cuore dello spettatore. È il folgorante incipit dell’ultima imponente opera di Martin Scorsese, The Killers of the Flowers Moon, adattamento cinematografico de “Gli assassini della terra rossa” di David Grann, un libro che racconta a modo d’inchiesta le indagini sugli omicidi avvenuti tra gli individui della tribù degli Osage.

Martin Scorsese tramuta l’inchiesta in racconto narrativo, si insinua con la macchina da presa e con le parole nella Storia americana, quella che si fa nelle larghe e polverose terre del western, ma che per lui è sempre nata sulle strade, dove si aggira l’uomo bianco potente, vorace e ingordo di ricchezze. Il protagonista allora non è più un agente dell’FBI come nel libro, ma Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) che, dopo aver combattuto in guerra, ritorna nella nativa Fairfax alla corte dello zio “re” William Hale (Robert De Niro) in cerca di lavoro. Lo zio gli propone di diventare autista dell’ormai ricca tribù degli Osage. Un giorno sale nella sua macchina Molly (Lily Gladstone) e lui se ne innamora, e su consiglio dello zio, che mira ad appropriarsi della ricchezza della donna, la sposa. Ma la Nazione Indiana è pervasa da strane morti, una dietro l’altra, per cause apparentemente naturali o per suicidio, tanto da iniziare a creare i sospetti di strategie, invece, mirate e volontarie da parte dell’uomo bianco.

Killers of the Flower Moon è il film più politicamente importante di Martin Scorsese. La politica è rapporti e proporzioni: così i legami familiari e sentimentali, nelle 3 ore e mezza di durata, sono sacrificati a favore dei legami di razza, dei rapporti di potere; l’opera di Scorsese è il racconto di un popolo che cerca di prevaricare sull’altro, con latenti e sottili violenze e soprusi, ma senza alcun dubbio morale, in un meccanismo incessante e schiacciante; e senza colpe e colpevoli, ma con l’autogiustificazione e l’autoassoluzione in nome di una Storia che così deve andare avanti e così accadere. Per gli indiani d’America “il tempo ormai è passato”, afferma sprezzante il William Hale di De Niro. È lui l’incarnazione del Male, è lui la mente nelle segrete stanze che muove i fili nascosti dietro agli omicidi, che ingaggia gli assassini, che spinge le loro coscienze con ricatti e promesse; nella stratificazione del film la sua figura di villain della storia emerge un poco alla volta, prima in qualche stilettata di dialogo, poi sempre di più mostrando un’ideologia razzista totalizzante. Questo uomo bianco si muove nelle sequenze del film spesso vestito proprio di bianco, come a sottolineare il paradosso di come lui vorrebbe apparire, puro, buono nello sguardo e generoso nelle parole, intaccabile e immacolato, e come invece è sotto l’abito: si muove dentro di lui un animo avido e feroce, insaziabile, e una mente criminale.

Ernst invece è ingenuo, è l’elemento manovrabile, è l’uomo pasticcione che incasina spesso i piani, perché istintivo e sprovveduto. Ama sua moglie, ama il denaro. Questa scissione e questa ambiguità abitano in lui e si agitano, lo agitano, lo confondono. Ma Scorsese, alla fine, ci dirà che per lui l’equilibrio non è raggiungibile in un abbraccio o in una chiacchierata con lo zio, ma nello sguardo e nel sorriso leggermente accennato della donna innamorata e amata. Molly si districa in questo triangolo narrativo, resistendo con forza ai due individui maschili, amando e combattendo per far venire a galla la verità. E per rimanere in vita.

È un film lungo, Killers of the Flowers Moon: Scorsese, a 80 anni, non sfoltisce ma accumula, ingigantisce non tanto il suo cinema, che qui manca quasi totalmente di epos e di pathos, ma quanto l’idea produttiva che ne sta dietro. Ne risente la sceneggiatura, che svolge il compito quasi in maniera scolastica, di certo interessante, ma non efficace: non si concentra in ciò che dice, non focalizza, non approfondisce. È come uno studente che all’interrogazione di Storia si capisce che sia preparato e conosca l’argomento, ma è prolisso, perde il centro della sua esposizione e va alla deriva, perciò è distratto e superficiale. Se la regia di Scorsese è robusta e sa regalare scene di un fascino unico (con il lavoro sempre splendido alla fotografia di Rodrigo Prieto), la scrittura non ha mordente, eccede in reiterazioni, soprattutto nei dialoghi, in didascalismi e immediatezze non proprie del cinema scorsesiano (cioè del grande Cinema). Il film di Scorsese non emoziona praticamente mai, perché è privo di scene madri e procede lentamente, freddamente. Il tappeto musicale praticamente continuo non aiuta a spostarci da quella superficie: la linea melodica di Robbie Robertson è rettilinea e precisa, ha un tono tenue e scorre monotona sotto le immagini, tirando tutto a sé e stirando e appiattendo il contenuto. Non ci sono asperità, né profondità.

Tutta l’ultima parte, che è magnifica quanto l’inizio, spiega ogni scelta del film, i significati si ricongiungono in modo perfetto ai significanti, trovando completezza e compiutezza: la narrazione sommessa e diretta, il montaggio frammentario, le panoramiche repentini, la colonna sonora onnipresente. C’è coerenza quindi, ma francamente non credevamo potesse essere altrimenti con un autore come Martin Scorsese. Tuttavia, ciò non basta a rendere Killers of the Flower Moon un grande film.

Simone Santi Amantini

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