Milano, Teatro Elfo Puccini. Recite fino al 19 novembre 2023
Il Teatro Elfo Puccini inaugura la stagione del cinquantennale con la prima delle sue produzioni e lo fa con un titolo importante, che immediatamente evoca grandi interpreti e storiche produzioni: Re Lear di William Shakespeare. Tragedia rappresentata davanti a Giacomo I, la notte di Santo Stefano, durante le vacanze di Natale del 1606. La storia di Lear e delle sue figlie era antica e ben conosciuta all’epoca in cui Shakespeare compose la tragedia, anche al pubblico dei teatri. La critica fa osservare che nei confronti delle “fonti” l’atteggiamento del drammaturgo è stato insolitamente scrupoloso e attento; sola “licenza” quella del personaggio più straordinario della tragedia: il fool, il matto. Dramma complesso e scomodo, modulato su una struttura narrativa quadripartita e di parallelismi, nel quale, oltre ai temi della classicità come l’amore, l’ambizione e la gelosia, si racconta del rapporto violento e doloroso tra apparenza e realtà, entro il quale è possibile agire con nobiltà solo mascherandosi – Kent/servitore ed Edgard/Tom. Bruni e Frongia esplorano il campo della follia e della violenza allestendo la tragedia per antonomasia: Re Lear. In questo testo, accanto alla pazzia, vista come rifugio, sono presenti altri elementi di drammatica importanza che lo rendono difficilmente rappresentabile, poiché solo in parte si riesce a mettere in luce il carico di ambiguità e d’interrogativi che s’intrecciano nel testo: l’incapacità di spiegare razionalmente la vita. Un compito che al grande drammaturgo è poeticamente riuscito. Con Re Lear Shakespeare tocca le cime più alte della sua arte di drammaturgo e di poeta. L’urlo di Lear: “Matto, no, dei! Non voglio diventare pazzo!”, è forse l’esclamazione più allucinante che l’uomo abbia pronunciato davanti alla morte che si fa avanti nel disfacimento della vecchiaia. La traduzione di Ferdinando Bruni, scabra e dura in più punti, prende a prestito un linguaggio contemporaneo negando ogni sfumatura consolatoria, impastata di dolore e disperazione, in cui i personaggi “negativi” mostrano il limite dell’arroganza umana, facendo sbiadire a pallido contrasto la positività dei “buoni”. Resta solo un deserto di disperante crudeltà, un’onda che sembra propagarsi all’infinito e non cessare. Il Re Lear di Elio De Capitani è un vecchio ancora ben portante, granitico e tirannico senza curarsene, geloso dell’adulazione e del consenso dei suoi cortigiani, riesce bene nel tratteggiare la ridondante e fisica imperiosità del monarca e l’incontestabile ubbidienza in ogni sua pretesa, pur ridotto a un enfant gâté dall’immemore potere. Partecipe anche se non straziante nei momenti in cui fa prova e tocca con mano le commozioni umane, è meno astratto e pregnante nella scena della pazzia, non possedendo la corda astratta della pazzia, esito di una forte tensione emotiva tesa tra psiche e corpo, e non una schizofrenica farneticazione. De Capitani soffre più fisicamente che interiormente e tuttavia, si erge sull’intera compagnia per maestria e sapienza attorale, interprete che scolpisce la parola e legge il personaggio. I compagni di palcoscenico fanno corona all’attore senza che nessuno spicchi per carisma, pur con punte d’indubbia professionalità. Pregevole e maschia interpretazione di Umberto Terruso quale Conte di Kent; spicca poi il consumato artigianato artistico di Giancarlo Previati un Conte di Gloucester dai dolenti accenti finali. Per veemenza di fraseggio e subdola quanto lucida malvagità si apprezza Simone Tudda (Edmund), la cui l’interpretazione, pur marcata da violenta passione, lascia intravedere una complessità d’animo. Mauro Bernardi non sviscera completamente il complesso e sfaccettato personaggio di Edgard che la traduzione colorisce con pattumiera verbale fra rutti e peti, in una cadenza quasi veneta, obbligato in penose posizioni. Nicola Stravalaci è un gustoso Oswald, colorito ma attento a non scivolare nel macchiettismo. Il Matto di Mauro Lamantia è attore debordante ma senza lo spessore per esplicitare a fondo la follia di cui è portatore, non fondamentale nelle relazioni con gli altri personaggi, in particolare con lo “zio” Lear. Alessandro Quattro era un puntuale, anche se non personalissimo, Duca di Cornwall mentre Giuseppe Lanino era uno statico Albany. Apprezzabili le parti femminili delle due regine – Goneril di Elena Ghiaurov, Regan di Elena Russo Arman colorite ed espressive nelle esagerate proteste d’affetto per Lear, si fan valere per la tenuta scenica anche se, nel finale, tendono a calcare sul pedale dell’interpretazione. Cordelia è Viola Marietti, dal bel personale e materiale vocale ma ancora troppo acerba e poco sensibile ai palpiti del personaggio. Ma non è la giovinezza di alcuni a porli in una condizione di fragilità espressiva e interpretativa, bensì la mancanza di una corretta impostazione della voce e di un’approssimativa ricerca di colori con i quali tingere il proprio personaggio. Purtroppo va evidenziato che la fonazione spinta, spesso urlata, e mai “in maschera” cui sono quasi tutti ricorsi (e l’uso di microfoni), ha appiattito alla lunga la complessità e la demoniaca sfaccettatura dei personaggi shakespeariani che, per natura del Teatro, risiede nella parola. Coinvolgente lo spettacolo firmato per regia, scene e costumi da Bruni e Frongia che, ben sposandosi con l’atemporalità del testo, ricorre a un artigianato di rivedute quinte e siparietti. La regia pur funzionale in più momenti – vedi l’ingresso teatrale di Lear su un sormonto di troni, non appare sempre omogenea e della stessa qualità inventiva. Pregevoli i costumi, calcolate le luci, debordanti e squassanti come il testo, le musiche. Pubblico attento e in relazione empatica con il palcoscenico, nel festeggiare la compagnia riserva a De Capitani un particolare calore.
gF. Previtali Rosti
Foto di Laila Pozzo