Monumetale “Don Carlo” a Piacenza

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Al Teatro Municipale di Piacenza recita dal 12 novembre 2023

Don Carlos/Don Carlo, una gestazione che è un romanzo in se stesso. Nel 1850 proposero a Verdi di musicare il Don Carlos di Schiller per l’Opéra di Parigi, ma non era interessato; riprenderà in considerazione il progetto quindici anni dopo. Nel frattempo aveva avuto modo di conoscere a fondo il dramma di Schiller, preso dall’entusiasmo per una nuova avventura musicale. Il problema era elaborare un libretto da quel monumentale lavoro non sempre rispettoso della verità storica e dall’intreccio che si perde in mille rivoli. I librettisti francesi Méry e du Locle fecero del loro meglio per ridurlo a una forma operistica. L’opera che ne scaturì durava quattro ore e mezzo. Troppo, anche per le scene parigine. Verdi, operò altri tagli, così il Don Carlos apparve per la prima volta nel marzo del 1867, quella che è la versione “francese” corrente, in cinque atti e il balletto. Al Covent Garden di Londra l’onore della prima produzione post parigina, nella traduzione italiana del de Lauzières e Zanardini, nel giugno dello stesso anno, con rimaneggiamenti operati dal direttore d’orchestra Costa. Seguirono rappresentazioni a Roma, Milano e Napoli, sempre piuttosto manomesse, tanto che nel 1872 Verdi decise di riscrivere, accorciandoli, alcuni pezzi, notoriamente i duetti tra Filippo e Posa e tra Don Carlo ed Elisabetta. E non è ancora l’ultima parola: nel 1883, dopo matura riflessione, il bussetano intraprese una revisione ancor più radicale del melodramma. Ne uscì un nuovo, snellito Don Carlo, col titolo in italiano: alla Scala, nel 1884 fu un grande successo. Verdi, attento al clima teatrale, colse le lamentele per la soppressione del primo atto della versione originale; a Modena, 1886, l’atto di Fontainebleau fu rimesso al suo posto. Versione che l’editore Ricordi pubblicherà nel 1887: cinque atti senza balletto. Comunque si voglia considerare la questione dibattuta del Don Carlos/Don Carlo, è difficile pensare a una versione “definitiva” dell’opera, perché molti dei pezzi che si omettono scegliendo una versione anziché un’altra, sono spesso magnifici. La versione scelta per questo Don Carlo (una coproduzione dei Teatri Comunale Pavarotti-Freni di Modena, Municipale di Piacenza, Romolo Valli di Reggio Emilia e Galli di Rimini) è quella italiana del 1884 che Verdi approntò per la Scala: la più concisa delle cinque conosciute, quella con il finale in cui il fantasma di Carlo V chiama a sé il nipote nella tomba per sottrarlo ai frati del Sant’Uffizio. Sul podio dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini il Maestro Jordi Bernàcer dirige con gagliardia e impeto narrativo, sagace nel sottolineare la teatralità delle masse più che dipingere stati d’animo dei personaggi. Interpretazione della partitura reboante, dal grande ampleur di suoni netti e taglienti, che non indugia sui particolari, a discapito di una cura del fraseggio e scandaglio di sottigliezze interpretative. Michele Pertusi è un Filippo II di voce non stratosferica per volume e gravità di suono, ma di timbro nobile e acuti sfumati, sempre “arrotondati”. E se qualche ondeggiamento si avverte nella tenuta vocale, è sempre felicemente calato nella parte, con quel piglio regale e imperioso nei comandi che la frequentazione del personaggio gli ha conferito. Si apprezza per un sagace fraseggio, insinuante e torvo, imperioso, ma lacerato nella descrizione dell’animo del monarca, che fa valere in Ella giammai m’amò, risolto con intelligente screziatura di dolore, finezza di frasi sussurrate, impastate di rimpianto e delusione. Interpretazione premiata da un’ovazione e da folle richiesta di bis. Don Carlo era Paolo Lardizzone (in sostituzione dell’indisposto Piero Pretti), ideale nell’ardore giovanile, buon timbro e voce che si contraddistingue per un rimarchevole squillo, anche se tende a spingere gli acuti. L’interprete non va però oltre una passione generica e tutta di superficie, lontano da un fraseggio verdiano coinvolgente. Rodrigo ha la voce ambivalente di Ernesto Petti, carente di smalto e poco proiettata.  Ottimo interprete quando canta piano, pregevoli mezze voci dove il fiato è sostenuto e sonoro, e nelle fascinose frasi in pianissimo. La voce si stimbra però appena amplifica il fiato, con acuti schiacciati e senza squillo, con una vocalizzazione non entusiasmante. Avvantaggiato da un bel personale e dalla tenuta della scena, è credibile attore e il fraseggio sarebbe coinvolgente, se non fosse inficiato da una linea vocale troppo spesso approssimativa. Elisabetta di Valois, Anna Pirozzi dal timbro lirico, suona inizialmente velata nei centri e di non grande volume: vibrante quando affronta una tessitura più acuta, trova nel seguito maggior compattezza. In Non pianger mia compagna si fa tenera e compassionevole; espandendo il suono, pur ancor trattenuta da un gelo regale, è partecipe ma non ancora trascinante. In Tu che le vanità, oltre a esibire finezze di smorzandi e messa di voce, ha drammatico e intenso fraseggio, struggente, esibendo nella chiusa dell’atto – Oh ciel! – alla scomparsa di Carlo nel monumento funebre, una travolgente quanto prolungata tenuta in acuto che tutti sovrasta. La Principessa d’Eboli di Teresa Romano gonfia artificiosamente i bassi, che risultano artefatti, inventandosi un timbro mezzosopranile autentico. Meglio riesce nel registro acuto, senza essere irreprensibile la qualità della coloratura. Focosa interprete, generosa nella foga melodrammatica (anche se stereotipata) nel terzetto con Rodrigo e Carlo, mostra meno finezza e cura del canto quanto intenso il calore interpretativo. O don fatale è il momento meglio riuscito; aria di tessitura più acuta dove il colore di voce naturale trova miglior risonanza, anche se gli acuti sono aperti. Il Grande inquisitore di Ramaz Chikviladze è partecipe scenicamente nel duetto con Filippo II ma né il timbro né la linea di canto sono impressionanti, con acuti precari e oscillanti. Tebaldo coretto di Michela Antenucci, più espressiva quale voce dal cielo. Completavano degnamente il cast, il frate di Andrea Pellegrini e Il conte di Lermaun araldo reale di Andrea Galli. Puntuale il Coro Lirico di Modena. Mastodontico lo spettacolo creato da Alessandro Ciammarughi, a partire dal dominante monumento funebre di Carlo V, l’azzeccata prospettiva sghemba del portale del Chiostro di S. Giusto. Snodandosi poi, come in un grand feuilletton, nei giardini della Regina per arrivare a Nostra Donna d’Atocha, in cui mette in scena tutto l’immaginario di una Spagna nel massimo splendore del suo impero. Sontuosi i costumi dello stesso Ciammarughi (anche se a Elisabetta non si concedono cambi d’abito, ma solo sopravvesti di complemento). Regia statica di Joseph Franconi-Lee che si risolve in prevedibili tableaux vivants, luci fascianti di Claudio Schmid. Successo calorosissimo per tutta la compagnia di canto e al direttore.

gF. Previtali Rosti

Foto Rolando Paolo Guerzoni

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