Intervista a Gianni Clerici. Dal ieri al domani, dalle racchette di legno ai giudici robot

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Gianni Clerici. Gli amanti del tennis se lo ricorderanno per le sue brillanti telecronache nei maggiori circuiti di questo sport, accompagnato da Rino Tommasi. Giornalista sportivo, scrittore – non dimenticherò mai la lettura di qualche anno fa de “I Gesti Bianchi” – si definisce incredibilmente un giornalista per metà fallito. Ho avuto modo d’intervistarlo telefonicamente, in una entretien fatta al momento, come improvvisata, d’altra parte è stato lo stesso Clerici a dirmi: “Improvvisiamo come facevano nella Commedia dell’Arte, di certo un teatro di qualità”.

Lei ha citato la Commedia dell’Arte, quindi le chiedo subito qual è il suo rapporto con lo spettacolo.

Credo di essere l’autore italiano di teatro più fallito d’Italia. Ho scritto cinque commedie – tre con Gianni Brera –, delle quali solo una è andata in giro. Per i romanzi ho avuto meno difficoltà e me li hanno sempre pubblicati… evidentemente nel mio teatro c’era qualcosa che non piaceva. D’altra parte, va detto che per queste cose in Italia è un po’ come vendere il ghiaccio agli esquimesi. Nel nostro Paese si lavora se si hanno amicizie giuste, invece vedo che in Francia, dove abita mia figlia, è tutto più semplice e se una cosa è di qualità viene proposta al pubblico. Lei ha rappresentato sei testi teatrali e ora sta aspettando la pubblicazione di un romanzo con Gallimard… un mondo molto diverso.

Oltreché come commediografo, lei si dichiara, incomprensibilmente, anche un giornalista per metà fallito.

Per certi aspetti sì, perché ho cercato di non avere successo nel giornalismo. Nella mia vita ho rifiutato molte offerte: a vice-dirigere un’importante testata italiana, a fare il corrispondente dall’estero, a dirigere una grossa televisione. Scrivo di sport e questo è limitativo. C’è un ottimo giornalista sportivo americano di Sports Illustrated, Frank Deford, che ha scritto due buoni romanzi, ma mi ha detto che non c’è niente da fare, perché ormai, lui come me, ha il marchio d’infamia dei giornalisti sportivi. Pensa che al Salone del libro di Torino mi sono addirittura presentato con una stella ebrea – sono per metà ebreo – ricamata sulla giacchetta. Anche il povero Brera è stato trattato da Umberto Eco come un poveraccio che chiedeva l’elemosina. Insomma, si tratta di una categoria per considerazione del tutto secondaria.

A parte lo sport, nella sua carriera si è occupato anche di altro?

Ho scritto finora quattordici romanzi e due libri di poesia. Per il resto, facevo anche il recensore di libri, fin quando un amico non mi ha fatto notare che chi scrive libri non dovrebbe scrivere anche recensioni. Una cosa dovrebbe escludere l’altra e aveva perfettamente ragione.

Cosa ne pensa del cambiamento che è avvenuto negli ultimi anni per quanto riguarda i mezzi di comunicazione e cosa ne pensa della stampa online?

Oggi è misterioso quello che sta succedendo ai mezzi di comunicazione, è un periodo che si può paragonare a quello in cui si passò dalla penna a inchiostro alla stampa; è un periodo di nuovi Gutenberg insomma. Per quanto riguarda la mia opinione in merito, è quella di un vecchio abituato alla carta, anche se ammetto che c’è  una quantità enorme di giovani, anche di qualità, che fanno parte della stampa online. Insomma, non posso avere un’opinione, sono troppo fedele ai miei strumenti, proprio come per il tennis, dove sono sempre rimasto affezionato alle racchette di legno.

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Secondo lei lo sport può essere definito arte?

Conosco molti sport: iniziai con il calcio e da lì passai al basket, poi allo scii, infine al tennis. Parlare di arte per lo sport è un po’ difficile. L’unica arte fisica che conosco che penso gli si possa accostare è il balletto classico, per il resto non saprei, devo ammettere però che in qualche caso per certi campioni si può parlare di arte, anche se cambia la connotazione psicologica. Mi chiedo infatti se Nijinski per danzare avesse bisogno della stessa psicologia di Bill Tilden o di Federer.

Nei suoi libri comunque lo sport prende di sovente delle caratteristiche poetiche.

Poetiche non saprei, spero solo di trattare le tematiche in modo obiettivo. Sul tennis ho scritto una decina di poesie, che mi furono gentilmente pubblicate da Fandango, Altrimenti non so se altri me le avrebbero stampate. Chi lo sa se lo sport è anche poesia? E poi lo sport è una grande categoria dentro la quale stanno sia sport individuali che di squadra, che sono molto diversi gli uni dagli altri. Ci sono sport in cui esiste un avversario da battere, come del resto ne esistono altri dove la lotta è contro te stesso e contro il tempo, come l’atletica. Insomma, le differenze sono molte e marcate.

Quanto le è dispiaciuto non poter commentare televisivamente le vittorie di Schiavone e Pennetta al Roland-Garros?

Non mi è dispiaciuto, perché ho potuto scriverne e tengo più alla scrittura che al commento televisivo, perché parlare non dà particolare tempo di riflessione e scrivendo si ha qualche minuto in più per pensare. Sono stato contento di scrivere di loro per queste occasioni, anche perché sono amico di entrambe.

Perché il gioco del tennis è così cambiato nel corso degli anni?

Il momento di cambiamento è avvenuto con il passaggio dalla racchetta di legno alle altre racchette di metallo e più tardi di materiali spaziali. Prima il gioco era molto più creativo e non c’era bisogno che i tennisti fossero anche atleti – in effetti ce n’erano alcuni che non avrebbero fatto niente nell’atletica leggera. Ho fatto anche parte di un gruppo di opposizione alle racchette che non fossero di legno, comandato da John McEnroe. Avevamo raccolto cinquanta firme di note personalità, ma non siamo riusciti a vincere, perché tutti i fabbricanti di racchette si sono chiaramente opposti. Chiedevamo di fare quello che è accaduto anche nel Baseball, dove per un certo periodo i materiali delle mazze erano cambiati, ma poi è venuta fuori una legge perché esse fossero solo in legno – a causa dei troppi fuoricampo che avvenivano.

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Queste racchette creano anche omologazione di gioco.

Sì, c’è molta omologazione. Di recente però sono stato al Foro Italico e un bambino mi ha detto entusiasta di essere contentissimo del nuovo gioco, perché evidentemente non aveva visto quello vecchio. Per fortuna ci sono ancora giocatori come Federer, che, pur cominciando a giocare nell’epoca contemporanea, hanno continuato a giocare più o meno con lo stile di una volta, con delle grandi differenze, certo, i piatti corde per esempio in passato erano molto più piccoli.

Per Federer, come per altri campioni come Sampras o Agassi, non può valere secondo lei l’epiteto di artista?

Sono perplesso riguardo alla definizione di artista. Esteticamente sì, certamente, però poeticamente ho qualche dubbio, forse perché ho un concetto troppo alto di poesia. Il balletto è la forma d’arte che più si avvicina allo sport, ma se poi spaziamo nella musica e nella poesia scritta… beh, faccio fatica ad accostare le due cose.

La tecnologia in certi casi omologa, in altri aiuta, se parliamo di moviole o occhi di Falco.

Certamente. Prima il giudice era un essere umano, mentre adesso si arriverà al giudice robot (ne sono sicuro!). È facile che lo diventi, già lo è per metà, perché lui stesso consulta l’occhio di Falco. Il giudice di linea scomparirà sicuramente e forse in futuro anche quello di sedia.

Stefano Duranti Poccetti

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