“La mia tradizione sono gli oltre quarant’anni di avventura”. Il M° Michele Monetta si racconta

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A 21 anni provavo una certa insoddisfazione.
Lavoravo già in una compagnia, ma dopo i primi quattro anni di attività ero come pervaso da un senso di inadeguatezza: era quella era la mia strada, ma non mi sentivo ancora pronto per vivere di teatro. Ero in cerca di qualcos’altro, di qualcosa di nuovo, qualcosa che mi desse una direzione.
Nemmeno io, ancora troppo giovane, sapevo cosa fosse.
Poi su una rivista, adesso mi sfugge il nome, lessi un articolo che parlava di lui: francese, grande maestro di mimo. Incuriosito, mi informai meglio: quel tale non era semplicemente un famoso maestro di mimo, ma uno dei più grandi maestri teatrali d’Occidente.
Era Etienne Decroux.

Decisi così di partire e di iscrivermi alla sua scuola, ma purtroppo fui frenato da un inconveniente, ed arrivai da lui a Parigi con due giorni di ritardo. Fui respinto.
La cosa mi destabilizzò, ma non mi persi d’animo, ritentai l’anno dopo…arrivando in città con un mese di anticipo! Fui poi ammesso.
Avevo già 26 anni, immediatamente rimasi incantato dal Maestro e dalla sua pratica, ma soprattutto, attonito: innanzitutto, l’insoddisfazione in me divenne sconforto, come se rispetto al suo straordinario lavoro tutto ciò che avevo fatto fino ad allora, ovvero prove, spettacoli, tournée… sentivo di dover ricominciare daccapo, da zero.
E proprio lì di fronte a me, non un semplice insegnante: scoprii presto che Decroux era un poeta.
Quando l’ho conosciuto, il Maestro avevo già superato gli ottant’anni…e ti accorgevi subito, appena entrava in classe, di quanto fosse ispirato, soprattutto nell’atto di insegnare, nel trasferire cioè l’esperienza d’una vita straordinaria. Come un giorno… entrò in aula, e come al solito, noi lì tutti in piedi, in fila ed in silenzio: non potevi parlare, si parlava solo se era lui, il Maestro, a domandare. Davanti ai nostri occhi quel monumento vivente, i suoi lunghi capelli bianchi, quella mattina lui, guardando nel vuoto, disse una cosa: «Bisogna sempre avere degli ideali – pausa – Lavoriamo.» Sembra scontato, ma prova a svegliarti la mattina senza desideri, senza quella luce, quell’ispirazione. E a dirlo era un uomo di oltre ottant’anni!
Poi ricordo che aveva un assistente portoghese, statuario, bravissimo, a cui un giorno chiese di eseguire una figura, una figura d’addio. Decroux cantava: il movimento deve avere musicalità, perciò mentre si eseguivano le figure da lui stesso codificate, Decroux cantava con la sua bella voce da baritono, quella volta una vecchia canzone francese d’amore, struggente.
Noi s’era lì incanti, ad osservarli. Eppure Decroux continuava a fermarsi e ed interrompere il lavoro dell’assistente. «Ripeti!», ed ancora con il canto il Maestro cercava di trasmettergli, di suggerirgli la qualità del movimento. Alla fine, dopo vari tentativi, spazientito Decroux gli dice di smettere. A noi sembrava assurdo, al nostro sguardo tutto ciò appariva plastico, bellissimo nella fluidità, elegante nella tecnica.
Ma il Maestro, che ovviamente aveva ben altro occhio, sembrava spazientito , ed anzi desolato, malinconico, addirittura triste.
Gli disse:«Tu non hai mai pianto per una donna».
Proprio lui, Decroux, così meticoloso nella pratica, riconosceva in quella esecuzione una fredda esibizione di virtuosismo tecnico, un vuoto: quella figura non era alimentata dal pensiero, non aveva cioè un’immagine che la ispirasse. Non era arricchita da una memoria.
E poi, un altro giorno: «La bellezza si nasconde – pausa – non si concede al primo che passa, ma richiede una prova d’amore. Lavoriamo», dinanzi a Decroux si restava così, attoniti.
Eppure ripensandoci, questa ricerca… io cerco la bellezza attraverso la dedizione ed il lavoro, è questa la mia prova d’amore. Il lavoro è amore.
Sin da ragazzo, ho cercato ispirazione ed ho tratto insegnamenti da maestri della scultura, dell’architettura, dell’arte circense del clown e del funambolo, del canto, sino ad arrivare al mimo corporeo, agli insegnamenti di Etienne Decroux, e poi dai miei lavori con Roberto De Simone.
La mia tradizione sono gli oltre quarant’anni di avventura nell’arte.
Ed ora con Lina Salvatore, mia compagna di scena e di vita, da ormai diciassette anni conduco l’ICRA Project, Centro Internazionale di Ricerca sull’Attore, presente a Napoli come Scuola di Mimo, dove cerco di trasmettere soprattutto i preziosi insegnamenti di Decroux, mentre Lina si occupa dell’insegnamento del metodo Feldenkrais; a Roma poi, conduciamo l’Atelier di Commedia dell’Arte contemporanea, dove cioè si studia e si lavora sulla Commedia dell’Arte, cercando di raccogliere e rilanciare l’esperienza di lavoro con le maschere della tradizione italiana.
Questo lavoro, anni fa, mi ha dato l’opportunità di essere contattato per la docenza all’Accademia “Silvio d’Amico”, ed ora, avendo intensificato l’attività di insegnante, ho concentrato sempre più il mio lavoro sulla pedagogia e la regia, sto seguendo la mia reale inclinazione: vedere l’opera, modellare, non disperdermi nei dettagli, poiché altrimenti, da dentro, cioè da interprete, il mio occhio resterebbe distratto dai troppi dettagli. Bisogna essere onesti con se stessi, nella ricerca, ascoltare ed assecondare la propria indole, ed io ho notato che mi piace lavorare soprattutto come “regista – pedagogo”. La definizione è di Fabrizio Cruciani, coniata per riferirsi ai giganti della scena novecentesca, tra cui ovviamente anche Etienne Decroux, poeta della scena. Per quanto mi riguarda, ho rimodellato la mia vita, la mia esperienza artistica nel cercare di coniugare e conciliare i due aspetti: nella mia didattica, elementi di regia (spazio, ritmo, attenzione, precisione del gesto, prossemica), da regista, soprattuto lavorando con danzatori ed attori, tento di sciogliere le loro frizioni, risolvere i problemi di immaginazione, di percezione dello spazio, di qualità dell’azione, ed a volte, semplicemente di combattere i loro timori e le loro paure, pescando nella mia esperienza, nel gioco, nelle letture, cerco talvolta di distogliere l’artista da un problema superfluo, poco funzionale al lavoro sulla scena.
Avverto il confine, non la distanza tra le due figure professionali, il regista ed il pedagogo.
A tal proposito, sto ultimando la scrittura di un libro, che uscirà a novembre di quest’anno.

“Mask”, un’idea mia e del M°Lorenzo Salveti, è invece la mia ultima avventura: concepito nell’ambito del prestigioso “Festival dei Due Mondi” di Spoleto, è nato come progetto performativo itinerante attraverso i luoghi più suggestivi della cittadina, ed è rivolto agli allievi del I anno di recitazione e regia dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.
“Mask” è giunta quest’anno alla terza edizione, rivelandosi sempre più quale momento di forte aggregazione: ha difatti un pubblico “spontaneo”, i passanti possono scegliere di assistere alla prove e poi unirsi alla processione per le vie di Spoleto.
“Mask”, ovvero maschera tout court, uno studio interattivo tra diversi stili di maschera: l’esperienza della maschera tragica, di quella balinese, delle mezze maschere della Commedia dell’Arte e comunque del “corpo – maschera”, difatti parte del corpo dei giovani attori viene dipinta di bianco, come bianco è il costume da loro indossato.
Un teatro di elementi semplici, elementare, attraverso l’utilizzo anche di bastoni, stoffe, percussioni, in un sistema quasi primordiale, un teatro delle attrazioni, in grado di far presa immediata sul pubblico, perché questo scelga di aggregarsi sino alla conclusione della performance.
Ed anche, un’opportunità irripetibile per gli allievi, quella di cominciare come facevano i menestrelli, i funamboli d’un tempo, come i cinquecenteschi saltimbanchi, l’opportunità cioè di mettersi in relazione con uno spazio aperto, un giardino, una piazza, una fontana… trovo che tutto ciò crei una dimensione lavorativa antica, arcaica, dove il giovane attore è invogliato ad esplorare il il teatro come presenza, ad esplorare cioè il teatro attraverso l’esperienza corporea, a partire dal corpo, quello del danzatore, dello sciamano, colui che si stacca dal gruppo per mostrare o raccontare, attraverso la propria voce, attraverso le parole, attraverso tutto il corpo, impegnato in danze elementari, gestualità, simboli. Impegnato nel rituale.

Devo dire che in questi anni gli allievi sono stati tanti…pare che negli ultimi tempi uno in particolare riceva e stia dando grandi soddisfazioni: proprio in Accademia, Luca Marinelli è stato mio allievo. Ricordo bene quando, in occasione di una open class, decisi con il M° Salveti di portare in scena una pièce della Commedia dell’Arte, che ritengo base fondamentale per l’attore.
Luca intuì che poteva interpretare una maschera particolare: data la prestanza fisica, il volto luminoso, l’innato carisma già allora evidentissimo, gli proposi di lavorare sulla maschera di Capitan Matamoros, avversario di Pulcinella, maschera dalla dizione spagnola, e figura tratta dalla “Lucilla Costante” (1609). Luca interpretò con dovizia di dettagli una maschera difficilissima, che porta te attore a vedere male e respirare peggio, dandone tuttavia un’interpretazione esplosiva, tirando di spada, direi pirotecnica. Un Matamoros di straordinario livello.
Luca già allora mostrava grande determinazione, e direi che non solo oggi sta dando grande soddisfazione a chi lo ha avuto come allievo, ma è da esempio per tutto il panorama professionale italiano.
Ed io ne sono molto orgoglioso.

Bernardo Tafuri

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