Pubblichiamo ancora altre poesie di Massimo Triolo, il giovane poeta aretino del quale proponiamo altre quattro liriche provenienti dal suo libro “In Ritardo Sulla Scena”, pubblicato dall’Associazione Akkuaria di Catania.
A seguito potete trovare dei link utili per acquistarlo in versione cartacea e in ebook, nonché una bellissima recensione pubblicata sulla rivista Excursus:
Link per l’aquisto:
https://www.amazon.it/ritardo-sulla-scena-specchio-Akkuaria-ebook/dp/B00HXO9X3G/279-5818815-8212166?ie=UTF8&*Version*=1&*entries*=0
http://www.ibs.it/code/9788863281361/triolo-massimo/ritardo-sulla-scena.html
http://www.libreriauniversitaria.it/ritardo-scena-triolo-massimo-ass/libro/9788863281361
http://store.streetlib.com/in-ritardo-sulla-scena
https://mybook.is/it/massimo-triolo/in-ritardo-sulla-scena
La dettagliata recensione di Excursus:
http://www.associazioneakkuaria.it/?p=728
Vergine semente
O luce che irradi lo spento anello
del nostro gemino sentire,
resuscitalo al fulgore
del serrame delle costole.
Oh, argani di sole
innalzatelo al di sopra
delle plutoniche ombre!
Si è trascorso trascolorando,
la via e il solco di spuma,
sotto il livido turgore
dei minacciosi nembi –
a cavallo dell’ inquiete lingue
della tempesta.
Fredda argilla,
i due cuori trascorsi
da perseveranti rivi.
Sepolto sudario intriso,
la messe nostra di falce rotata,
scorza d’albero,
e stilla di resina muta nel grido,
vitigno inchiodato nella canicola,
vergine semente
e guizzo di scaglia di luccio.
Ora e per sempre,
riuniti nel folto di verdi intrighi.
Ora,
e per sempre,
nel vasto scenario del naufragio,
strappi di luce nel cielo oscurato,
che cala a terra
scivoli di sole.
Giorni
Giorni spenti come fuochi di bivacco,
a mattino,
fumiganti sotto crocchi d’evanescenti stelle.
Giorni accesi,
come di rosa rosso turgore,
sul palmo dorato del sole.
Giorni come il lancio di dadi di un fanciullo,
giorni come perle nere
e giorni come un atto notarile.
Da vivere nelle viscere prima di meditare,
da decantare piano
per vederci limpido.
Anime di memore chimica organica,
con aurorali reminiscenze mitiche e divine,
stritolate nei giorni della macchina.
Giorni come onde di mare,
che alla riva torna
e dalla riva si ritrae,
nel suo eterno amoreggiare…
E in ficcanti lingue di spuma di mare,
estenua la riva,
traendone il suo sale.
Giorni come il fanciullo sulla riva,
stregato da una conchiglia,
e inconsapevole dell’universo immenso di fronte.
Anime di memore chimica organica,
con aurorali reminiscenze mitiche e divine,
in lotta nei giorni della macchina.
Ai piedi del faro
A volte una voce colta di sguincio,
è una trappola, uno sgambetto, un arcano capovolto;
una trasmutazione di brani di parole in piccole dosi di veleno,
un orbita che nel mio esorbita con traiettoria assassina.
Ahi, quel che si dice di me, buggera e non lascia tregua!
Curvo come un salice piangente me ne vado per le strade
mentre brucio, brucio senza tregua.
Ahi, quel che di me ci si figura!,
mi ritrae svanito fino a smarrirmi nella figura…
So che “ai piedi del faro non v’è luce”,
ma se la menzogna coincide con la sorgente della luce,
solo ai piedi del faro, v’è di tregua una manciata
e di verità.
Ahi, le costrette posture dei pensieri miei presso quei paraggi –
scuoiati ed eviscerati, cuciti e ricoperti
con la menzogna presa a qualche straccio di verità,
che aliena a sé quando colta, non lontano veleggia, dal mio scempio,
nell’ attesa d’esser colta.
Ahi, quel che si dice di me… sono io al cubo senza traccia di me!
Ahi, quel che di me ci si figura!, mi fa smarrir del mio, la partitura;
tutto segmentando, nel mio identico sofferto,
prima ch’esso, il suo principe ruolo cominci al mondo:
al mondo distinguer senza esser dissolto.
Tu che m’insegni la strada
Tu che m’insegni la strada, rinuncia,
a quell’aspro litaniare.
Tu che agiti lo spettro dell’insonnia,
in faccia a lune butterate,
e assenzio fai schioccare sul palato,
lasciando il passo al diavolo
sul selciato disastrato dei tuoi usi,
tu, che l’obolo di un giudizio,
non mendichi alla soglia
dell’altrui presenza,
tu salva un oncia di sorriso
al centro della ragione
del cammino.
Svesti il ciglio delle parole
che hai vestito a quaresima,
arringando il vento e le schiene,
e onora giorni più diafani e veri,
adoperandoli ad usi frugali
che non indulgano all’eccesso.
Abbiam rinunciato a praticar le veglie
rimboccando le coperte a sogni acerbi,
quegli stessi che mai poterono compiersi
nel corso delle nostre ingorde vene.
Frugato abbiamo le vesti ad angeli randagi,
adagiando sospiri sulle loro labbra di miele –
noi disperati cartografi di stelle –
per non dover che onorare l’ombra
del nostro segreto cuore di gemma,
loro assenti nei nostri dedali di specchi.
Tu che m’insegni la strada,
ricorda l’algebra dei nostri occhi fondi,
gli arabeschi inusitati del gesto
che ci descrisse e mai nessuno seppe,
l’aroma blasé che ci portiamo appresso
nel nostro “lungovita” amaro.
Onora le nostre notti e i nostri giorni,
l’adagio delle reciproche confidenze,
il nostro spoglio giaciglio,
ai piedi del pallido volto di rocca
che ci offrirono le circostanze.