Trieste, Politeama Rossetti, Sala Bartoli. Dal 1° al 20 novembre 2016
Dopo aver inaugurato la stagione con Play Strindberg, l’adattamento che Friedrich Dürrenmatt fece nel 1969 dalla Danza Macabra del commediografo svedese, il Rossetti mette in scena come propria produzione anche Das Kaffeehaus, tratto nello stesso anno da La bottega del caffè di Carlo Goldoni. È una scelta interessante e opportuna, che offre al pubblico la possibilità di seguire e confrontare il lavoro che due autori di area germanica avevano deciso di realizzare, nello stesso periodo, su due testi classici facendo emergere, ognuno a proprio modo, il disfacimento di istituzioni o di valori che fino ad allora sembravano eterni. Se Dürrenmatt aveva smascherato, grazie alla sua analisi razionale, la violenza nascosta all’interno della coppia creata da Strindberg, con cinico sarcasmo Fassbinder è riuscito a portare alle estreme conseguenze quel che già si celava nell’opera di Goldoni: sentimenti come l’amicizia e l’amore sono fragili, non si possono dare per scontati e vanno invece protetti con tanta cura perché sono sempre a rischio, soprattutto quando ci si trova esposti a tentazioni forti e quando il denaro risulta essere il motore intorno al quale tutto gira. Se in Goldoni, alla fine tutto si ricomponeva, in Fassbinder niente si salva: non il rispetto di se stessi o degli altri, né l’onore; non la fedeltà alla parola data o verso chi ci ama. Tutti danzano non più davanti alla bottega del caffè, ma intorno alla casa da gioco e si lasciano attirare da questo buco nero che tutto corrompe. Si vende ogni cosa: se stessi, la propria reputazione, il proprio nome. Si dichiara amore soltanto a chi è disposto a pagare e quel che era sfumato nell’originale, in questo adattamento è esasperato in modo più che esplicito. Il lieto fine è stato eliminato, grazie anche alla riduzione al minimo indispensabile del ruolo di Ridolfo, il personaggio che meglio di tutti riusciva a mantenersi retto fino alla fine, sostenendo, aiutando a rialzarsi chi, nel corso della vicenda, era caduto e ricomponendo i conflitti.
La regia di Veronica Cruciani, cui si deve anche il suggestivo adattamento scenico, rispetta in modo intelligente la versione di Fassbinder cui la compagnia si adatta con convinzione: Riccardo Maranzana è un brillante Ridolfo, Andrea Germani un convincente Trappola cui l’autore tedesco affida molte battute che originariamente spettavano a Ridolfo; Francesco Migliaccio è il sornione Don Marzio dall’accento esotico, Filippo Borghi, il giovane e confuso Eugenio, vittima principale; il ruolo del diabolico Pandolfo è molto ben “giocato” da Graziano Piazza (attore ospite) ed Ester Galazzi è un’ottima Lisaura; Adriano Braidotti risulta essere un Conte Leandro adeguatamente sgradevole, Maria Grazia Plos sa rendere al meglio la figura di Placida, come Lara Komar quella di Vittoria. In questa crudele immagine sociale, che rispecchia tanto la nostra contemporaneità, l’immagine femminile è mortificante, ma purtroppo molto realistica. Colpisce allora la sorprendente modernità ed attualità di Virginia Woolf che, nel 1929 invitava le donne ad essere autonome, affermando la necessità di guardare “ in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale appoggiarci, ma che dobbiamo camminare da sole”. Per vivere davvero “dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne.”
Paola Pini