Pensieri indecenti sul teatro contemporaneo

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Aiuto, mi hanno rubato la gioia! – Come? Chi? Quale gioia? – La gioia di fare teatro!

Solo così posso esprimere il mio stato d’animo quando sento parlare di teatro, quando vado a teatro, quando leggo – e mi capita spesso – drammaturgia: la mancanza di gioia, una sensazione di noia, di de ja vu, di reiterazione o di coazione a ripetere un rito psicotico. Non si tratta della crisi di pubblico e neppure della “mancanza di mezzi” che il teatro lamenta: la mancanza di gioia deriva da una sensazione di inutilità di questo carrozzone fermo non solo perchè le ruote (del finanziamento economico) siano bucate, a terra. Piuttosto il carrozzone è bloccato da una sostanziale, totale,  inedita fino a un decennio fa, mancanza di coraggio, mancanza di idee, mancanza di novità. Il che poi è la tragica – culturalmente parlando – conseguenza della mancanza… mi si chiederà: di copioni? di registi? di strutture? di una classe politica? di una società culturale? No, no: il blocco del teatro, la nausea che prende allo stomaco, ha altra origine, poichè queste  sono appunto solo “conseguenze” non cause. La vera “mancanza” è ideologica, di Weltanschauung, di ideali da realizzare. E a patirne è innazitutto la politica, quella politica che poi a pioggia dovrebbe produrre politica culturale e quindi teatro, drammaturgia, attori, registi eccetera.

Tutto è confuso, squallido, miserabile: che vuoi fare teatro, arte cultura in un orrido calderone di inciuci e vergognose  inammissibili complicità, di oscenità in cui l’ideale politico è  “magnasse tutto” e il codice espressivo del politico di turno va dal  “ti pi… in bocca” al più tristemente recente “facce da culo”?

 “La nottata non è passata”, scriveva Eduardo, concludendo pessimisticamente all’indomani della Liberazione la sua funerea visione della società italiana del futuro. E io aggiungo sulla falsariga eduardiana: la nottata non passerà mai, neppure tra cent’anni – almeno continuando così.

Ecco  il punto: se un autore o un regista,  non ha ideologia, non ha visione di una società del futuro, non combatte per una causa usando (sottolineo usando come Brecht, come Stehler,  Fo  e aggiungo Pippo Fava – non “semplicemente “facendo”) il teatro, la parola teatrale, come un atto di rivolta, il palcoscenico come una barricata, la rappresentazione come un una riunione clandestina di cospiratori; se invece di fare opposizione culturale, politica, sociale si  cerca posto in cartelloni,  festival, rassegne, teatrini, teatroni e teatracci con la “massima” aspirazione di “trattare un argomento”, di intrattenere con più o meno impegno civile una società mefitica da investire con la ruspa (qui la ruspa ci vuole, altro che campi rom),  scendendo a patti con corrotti e corruttori, con direttori artistici e assessori, con nani e ballerine, addirittura con mafiosi e centri di potere occulti, allora  questo carrozzone che vorrebbe gonfiare con l’aria rifritta  del  sostegno “pubblico” le sue ruote di legno è destinato a rimanere tragicamente impantanato.  Marciranno  nel fango le sue ruote che quest’aria rifiritta non potrà mai gonfiare.

LA REGOLA DEI QUATTRO PERCHE’

La drammaturgia italiana, salvo eccezioni,  è afflitta insomma da un male storico: la mancanza di <necessità>.

Naturalmente la stragrande maggioranza dei  testi che capita di leggere, nelle giurie di premi o  in redazione,  trae spunto da argomenti  onestamente e diligentemente  sentiti, percepiti come <urgenti  e  necessari>.  Va pure riconosciuto che spesso – anzi quasi sempre – questi spunti <reggono>, almeno  nelle prime pagine, l’interesse del lettore e dello spettatore.

Ma lo spunto, l’idea iniziale spesso non bastano e, dopo qualche scena, cominciano le prime difficoltà di lettura.

Mi trovo così spesso a domandarmi se sono io a leggere  in maniera superficiale, magari in un momento sbagliato, forse distratto da altri pensieri, ma insomma: stento nella maggior parte dei casi e <tenere> viva l’attenzione e ad appassionarmi nella lettura.

Si dirà: il teatro necessita di una dimensione immaginaria, visiva e rappresentativa diversa e superiore alla lettura <semplice> di un’opera narrativa. Premesso che non sono d’accordo su questo punto, – poichè ritengo che la drammaturgia sia uno dei punti più alti della letteratura, – posso assicurare che invece, per una serie di motivi formali che non starò qui  a precisare, prediligo  leggere  teatro.

Allora perchè la lettura di tanti testi di autori contemporanei, pur cogliendo la valenza dell’incipit,  finisce – tranne eccezioni –  prima o poi per farmi tediarmi? Per rispondere a questa domanda mi appello alla regola dei  <4 Perché> della drammaturgia: si tratta di una regola che solitamente applico nel mio lavoro e che volentieri disvelo ai miei amici e colleghi affinchè, se credono, ne facciano buon uso.

Nella prefazione de La vita intensa  del 1919 Massimo Bontempelli si domanda  “e allora per chi e perché scrivo questo romanzo?  Lo scrivo per i posteri. Lo scrivo per rinnovare il romanzo europeo. Questa duplice dichiarazione non deve maravigliare. Uno che scrive un romanzo, e ci mette la prefazione, non può assolutamente dichiarare meno di tanto.”

Prende allora spunto dalla sfida letteraria di Bontempelli per allargare il suo quesito e porre un problema generale: perchè si scrive?  Questo primo perchè può sembrare fin troppo ovvio, e  probabilmente lo è, ma rappresenta lo <start up> di ogni forma di arte in genere, e di drammaturgia in particolare, –  essendo il teatro una forma d’arte mediatica rivolta non alla comunicazione tra individui singoli, ma fondata sulla creazione di un <pubblico>, ovvero di una <comunità>. Non entro in dettagli storico-estetici, dico solo che l’autore di teatro non deve pensare di scrivere per se stesso, ma per la sua comunità. Deve quindi originariamente porsi il <suo scopo>. Voglio intrattenere il pubblico? Rappresentare un problema su cui tutti sono chiamati a farsi un’opinione? Intendo forse con la mia opera cambiare la società?  Svelare i segreti dell’Essere? –  Come si vede gli scopi che un autore puó darsi sono molteplici, e ad ognuno di essi corrisponde un genere teatrale. Avendo chiaro il proprio scopo, l’autore avrà anche ben definito il genere di teatro in cui agisce e quindi raggiungere formalmente una <linea> narrativa, ovvero uno <stile>. Senza la chiarezza necessaria su questo atto preliminare di ogni forma di scrittura teatrale, l’autore rischia di sconfinare ora in uno stile, ora in un genere, ora in una forma che  si sottraggono sfuggendo al <piano> narrativo e al controllo dell’autore. E non mi si dica che esiste un <genere transgenere>, una forma che accorpa e mischia tutte le forme in un minestrone. Conosco bene Esercizi di stile, che è appunto una magistrale lezione sul rischio che la <mancanza di uno stile>, cioè di uno scopo, possa rendere il copione appunto un mero, quanto inutile,  esercizio formale: un uovo svuotato del suo contenuto.

Al primo perchè sono collegati, a cascata, altri tre punti: per chi si scrive? Cosa si scrive? Come si scrive?

Diamo per scontato che l’autore nel momento in cui si mette all’opera abbia già davanti a sè il <suo> pubblico, ovvero il <proprio target>. I pubblici sono diversi e difficilmente mescolati tra loro. Un pubblico televisivo, popolare, non sarà mai uguale ad un pubblico di studenti liceali per una recita scolastica. Un pubblico di critici si differenzierà da un pubblico  <borghese>. Certo, mi si potrà rispondere: non c’è più nessun pubblico che vada a teatro spontaneamente, quindi, essendo il mio pubblico costituito da miei amici e conoscenti, e qualche parente portato a forza a teatro, posso scrivere quello che voglio. Questa considerazione, non priva di validi quanto tristi argomenti, è peró un’arma a doppio taglio: perchè un pubblico di amici lo capisce al volo che il testo che non ha scopo,  lo <scopo dell’autore> di cui parlavo poc’anzi, non ha neppure un suo pubblico. Quindi il pubblico, anche quello composto da amici e parenti, si chiederà insoddisfatto come Chatwin: che ci faccio qui?

Terza questione, anch’essa collegata al discorso del primo perchè, è quella del <contenuto>: cosa scrivere? La questione contenutistica è stata spesso e volentieri relegata nell’ambito dell’impegno. Un testo sarebbe dunque <engaged> quando esprime una problematica. La <cosa>, la questione posta dal testo è ad esempio <la mafia>, oppure la <violenza sulle donne>? Ed ecco, solo apparentemente, risolta la questione contenutistica che verrebbe a giustificare l’operazione drammaturgica. Ma le cose anche in questo caso non stanno così. Al drammaturgo infatti non si chiede di giustificare la sua opera nell’ambito di una meritoria rappresentazione di questioni o emergenze sociali, bensí di sostenere l’argomento trattato, la <cosa> del testo,  ovvero il suo contenuto,  appunto drammaturgicamente. E quando dico   <drammaturgicamente> mi riferisco al piano narrativo, prendendo in prestito il concetto dalla letteratura. Perchè anche, anzi soprattutto il teatro è una narrazione: il testo teatrale deve far insorgere, in me lettore, oltre all’interesse per l’argomento, anche la tensione per  il suo <sviluppo> da soggetto iniziale  in vera e propria sceneggiatura.  Alla fine di ogni scena, addirittura battuta dopo battuta, il testo deve provocare la curiosità del lettore secondo la regola fosteriana dell’e poi?.  Quindi ogni passaggio del copione deve essere necessario, tanto che come lettore io possa sostituirmi all’autore con un processo inconscio che mi induca a  sapere la battuta successiva in anticipo: perchè non puó essere altra che quella, perchè quella è allora <necessaria> ovvero <urgente>.

Come si puó facilmente intuire questo discorso porta con sè la questione del <come si scrive>.  Su questo punto, sulla forma, ha scritto tanto  – e giustamente –  Pirandello;  non mi sento qui di ripeterne la lezione. Basti sapere che l’autore ha la necessità, l’urgenza ancora una volta, di costruirsi una propria forma drammaturgica, – e quando dico forma non  mi riferisco solamente allo <stile> che è solo un aspetto della forma. Come uso il palcoscenico? Che novità formali invento per dare una nuva forma ad un contenuto, alla materia  che dalla vita passa alla rappresentazione?

Tornando alla domanda iniziale del come mai tendo alla noia leggendo drammaturgia italiana contemporanea, ecco che posso darmi una prima soddisfacente risposta. I testi – tranne ripeto eccezioni – difettano  in  tutti e quattro i suddetti punti, oppure assolvono alla loro funzione solo parzialmente,  nascendo già  nel primo caso, o rendendosi strada facendo,  inutili –  anzichè <urgenti> e <necessari> come ho sin qui accennato.

LO SPETTRO DI GOLDONI

Per prendere due piccioni con una fava, ovvero parlare sia delle possibilità di un teatro politico oggi in Italia e, parallelamente, affrontare un discorso sull’editoria teatrale, bisogna evocare  lo spettro di Carlo Goldoni. Esiste infatti un filo conduttore nella storia del teatro politico in Italia che, dalla Commedia dell’arte – sempre iconoclasta nei confronti del potere – a Machiavelli, Ruzante, trova alla fine  in Goldoni una vera e propria dimensione politica e una forma di sensibilizzazione ideologica preparatorie della Rivoluzione Francese.

D’altro canto lo stesso  Goldoni ebbe  un rapporto complesso con l’editoria, non sempre felice perché fu spesso truffato e pubblicato  abusivamente da stampatori furfanti, ma che nel bene o nel male contribuì alla diffusione della sua opera e della sua visione critica del mondo.  Per parlare di editoria teatrale e relative difficoltà (o dobbiamo dire impossibilità?) di un mercato che non c’è, o non c’è più, dobbiamo quindi  fare un passo indietro per capire le ragioni storiche del perenne stato di  <crisi> del teatro italiano riagganciandoci così alla dimensione “politica” del problema. Naturalmente so bene che la drammaturgia italiana ha vissuto alcuni secoli, addirittura si sfiora il mezzo millennio, di centralità nella produzione letteraria del nostro idioma.

Dalla Commedia  (divina, sì ma pur sempre teatrale come sottolinearono sia Petrarca che Machiavelli) a Goldoni, passando per la Commedia dell’Arte e i Poemi Cavallereschi, – teatrali perché destinati alla mise ene space -, per il teatro che si apre alla musicalità di Da Ponte, ai Dialoghi  – scientifici o filosofici ma pur sempre dialoghi sono – di Galileo e Leopardi. Insomma fino alla conclusione  del Settecento il teatro nella nostra letteratura è assolutamente centrale e predominante sulla produzione sia poetica che narrativa. Anche il seicentesco  Cunto del Basile, essendo una antologia di fiabe,  è destinato alla lettura e quindi alla rappresentazione: è pura drammaturgia. La conseguenza più ovvia è che fino alla conclusione del Secolo dei Lumi l’editoria teatrale italiana  godeva di discreta salute di riflesso alla ben consolidata   moda teatrale.

Bisogna aspettare Manzoni e l’Ottocento  perché la narrativa raggiunga i meriti del teatro. Ciò è reso certo possibile  dall’importanza del capolavoro manzoniano,  ma anche dall’improvvisa diffidenza della borghesia e dell’aristocrazia italiane – ovviamente le classi che fruiscono  e <consumano>  i cosiddetti prodotti  dello spirito –  per il  teatro. L’ostilità nei confronti della drammaturgia è dovuto essenzialmente alla diffusione, sicuramente forzata, in Italia dell’ideologia francese che si servì del teatro per propagare le idee dell’89: si era  fatta tanta fatica a costringere  Carlo Goldoni  nel suo esilio  in Francia, ed ecco che con le armate napoleoniche e con il rimbombo del mito rivoluzionario e della presa della Bastiglia si ripresenta il cavallo di ritorno: quell’ideologia libertaria e repubblicana, gli ideali di eguaglianza e fraternità, di cui sono intrisi i testi goldoniani che anticipano accompagnano l’ondata rivoluzionaria del 1789, invadono le scene italiane con i nuovi testi propagandistici degli autori d’Oltralpe, più o meno imitati dagli autori italiani del periodo che venivano spinti dai clubs giacobini e dallo stesso Direttorio d’Oltralpe.

In questa fase storica si è venuta stringendo in Italia una reazionaria sintonia culturale, oltre che politica,  tra la nuova borghesia e la nobiltà contro la drammaturgia contemporanea e contro il teatro politicamente impegnato  (emblematica è la vicenda drammaturgica di Vittorio Alfieri che pur con tutto  il suo misogallismo  e la critica al tradimento degli originari ideali di libertà da parte napoleonica, trova comunque da questi forza e ispirazione drammatiche). In nessun altro  paese, neppure in Germania che per certi versi ebbe uno sviluppo nazionale simile a quello italiano, si manifestò una tale idiosincrasia improvvisa per il teatro politico, ostilità che lentamente coinvolse tutto il teatro, ora  visto con sospetto e come un pericolo e non più  come un semplice divertissment. Così mentre in Inghilterra col teatro elisabettiano, in Spagna col teatro del Sieglo de Oro, in Germania con la lessinghiana Drammaturgia d’Amburgo, il teatro rappresentò per secoli il baricentro dell’idea e dell’orgoglio nazionali, –  sulle tavole di tutti i palcoscenici d’Oltralpe si era da lungi venuta  formando e  fondando  la concezione dello Stato Moderno – in Italia invece la drammaturgia,  soprattutto contemporanea, cominciò  a far  paura. E a guastare le uova nel paniere in quelle “larghe intese” tra borghesia capitalista e nobiltà latifondista che poteva e voleva sentir parlare di unità nazionale, ma non certo di uguaglianza e libertà.

La conseguenza fu che  i pirandelliani Giganti non scesero più dalla montagna per andare a teatro – o se lo fecero, preferirono rintanarsi nella classicità;  evitando accuratamente quelle piazze dove fino a pochi decenni prima si erano esibiti i Commedianti per strappare un sorriso e lanciare un messaggio sbeffeggiante, ma pericoloso fino ad un certo punto.  Dunque, le upper class nostrane si ritirarono  nei teatri dell’Opera lirica, in cui pur trapelavano gli ideali politici – Wagner e lo stesso Verdi ne furono tutt’altro che immuni – ma chi li capiva? Il popolo certo no, a parte le divertenti leggende sul Va pensiero,  fischiettato nei mercati sotto il naso degli austriaci come sberleffo indipendentista e insurrezionale.

La drammaturgia nazionale non realizzò  bene la situazione e continuò a gettarsi a testa bassa nell’engagement politico e ideologico: con le rivoluzioni del  1848 in teatro fu tutto un dibattere di libertà, degli  antichi valori repubblicani, di eguaglianza – e, dolore di pancia,  della dignità delle classi subalterne (pietro Cossa ne è un esempio). Ebbene, la borghesia in fase di industrializzazione e di arricchimento capitalistico, non aveva  nessuna voglia di andare a teatro a sentirsi scavare il terreno sotto i piedi: cominciò così l’operazione di rimozione della drammaturgia italiana dalla letteratura. E si badi che questa operazione fu portata a termine con coscienziosità, pignoleria ed efficacia stranamente – per l’Italia – teutonica: non bastava più esiliare il teatro goldoniano (in cui Truffaldino alza la testa contro i signori), nossignori, il teatro andava estirpato dalla letteratura nazionale. La riprova di questa esigenza politica culturale venne dall’evoluzione della drammaturgia nazionale alla fine dell’Ottocento: da una parte la drammaturgia contemporanea divenne uno strumento di diffusione (prima) e di propaganda (poi) delle idee socialiste coi teatri delle Case del Popolo, un fenomeno consistente che andò avanti dall’ultimo ventennio dell’Ottocento fino al fascismo (poi i teatri delle Case del Popolo vennero chiusi o dati alle fiamme dai fascisti). Ma anche dall’altra parte, dal versante diciamo <borghese>, la drammaturgia italiana non faceva che portare in scena la <crisi> di identità dell’uomo contemporaneo: basti pensare al Chiarelli de La maschera e il volto. Certo, il caso  di Pirandello rappresenta un’eccezione, – che però si spiega col suo successo all’estero per i primi film con la Garbo, per il Nobel (come è avvenuto con Dario Fo).  In realtà, in Italia Pirandello fu  fischiato all’inizio, almeno finché non strinse un diabolico e forse scellerato patto con Mussolini (il Duce fu terrorizzato dalla possibilità  che un genio italico divenisse simbolo dell’antifascismo): così di colpo le contestazioni cessarono e al genio del dubbio e della doppiezza della borghesia italiana, ebbene sì quella stessa borghesia messa sotto accusa sulle tavole  fu culturalmente indotta, se non propria fisicamente costretta, ad applaudire. Il che, beninteso, nulla toglie al grande valore critico e filosofico di Pirandello.  Senonché, andare a teatro a vedere quel <pazzo> (fu Adriano Tilgher a definirlo così) di Agrigentino divenne una trasgressione culturale liberatoria che, una volta tanto, come andare a sentir prediche a messa una domenica sì e una no, il borghese italiano con la moglie impellicciata  sentì di potersi permettere senza correre troppi rischi.

Devo aggiungere che questa  shoah culturale – chiedo scusa per il termine usato impropriamente ma che rende l’idea della dimensione del fenomeno – necessitava una copertura diciamo così <scientifica>. Copertura che venne da don Benedetto Croce che il teatro lo amava, certo, ma che non poteva considerarlo nella sua visione della purezza lirica e del sublime dell’attività dello spirito come una forma letteraria accettabile: troppe assi che scricchiolano sul palcoscenico, troppe voci da <cani> nelle compagnie, troppi chiodi da battere, troppa polvere da spazzolare dai drappi  e dai sipari. Per Croce, il teatro andava messo, mi scuso per il gioco di parole, in croce: una forma certamente artistica, per il filosofo napoletano, ma assolutamente lontana dalla vera e pura letteratura.

Naturalmente la concezione di don Benedetto  – che ripeto fu anche critico di teatro e quindi nascondeva qualche ambiguità  – si poteva capire sulla base della sua concezione dell’arte: si poteva appunto  capire – ma poi la si doveva superare reintegrando il teatro nella letteratura italiana. Il problema però fu che i critici e studiosi postcrociani, assunsero alla lettera il giudizio negativo di Croce sul teatro. E  presero due piccioni con una fava: si risparmiarono di dover  dar fastidi alla borghesia e di  avere il fastidio, nell’intraprendere le loro carriere accademiche,  dello studio di duemila anni di storia, visto che col teatro bisogna ahimé partire dalle origini.

Mi si dirà: e i critici di sinistra, coloro i quali si definirono  anticrociani e che pure vinsero cattedre e concorsi,  presidenze in case editrici e televisioni, anche costoro furono e sono tutt’ora complici della shoah culturale contro la drammaturgia italiana? Certamente sì. Perché il teatro, a partire da Majakowskij, cominciò a rompere le scatole pure a Baffone (Stalin) prima, e al Migliore (Togliatti) poi. Troppo anarchica, troppo libertaria, troppo critica la drammaturgia contemporanea anche – e soprattutto – per l’ideologia del cosiddetto realismo socialista che finì in qualche modo per trovare un comun denominatore estetico col realismo fascista (su questo punto non mi dilungo più di tanto, ma è ovvio che il mito dell’operaio di marmo stalinista e quello dell’operaio di acciaio mussoliniano, hanno  diversi tratti in comune).

Da qui nascono  le difficoltà storiche dell’editoria teatrale che non trova canali di diffusione neppure a livello didattico e che deve limitarsi, tranne qualche eccezione di un improvviso fenomeno televisivo, al ruolo della Cenerentola della letteratura.

Concludo però con un messaggio di speranza: l’avvento dell’editoria digitale, dei formati epub ed ebook con conseguente possibilità di diffusione e distribuzione online, rende necessaria una nuova forma di scrittura che molto si avvicina a quella, essenziale e dialogica, della drammaturgia. Così lo spettro di Goldoni cacciato dal suolo nazionale potrebbe  rientrare  dalla finestra di libertà aperta dal web.

Enrico Bernard

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