SPIDER-MAN: HOMECOMING, un film degno nel mesto universo Marvel recente

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Ogni volta che esce un film targato Marvel ci fanno credere (non tutti, ma quasi) che sia “Il miglior film Marvel”. È un gioco al rialzo. Dal mio punto di vista, invece, una guerra tra poveri. Non poveri di soldi, quelli continuano a girare, e sono l’unico fine di queste produzioni e l’unico grande motivo per cui continuano ad esistere. Ma poveri di idee, di contenuti, di sostanza, di cervello. Di coerenza, di coraggio. Di desiderio d’espressione, di volontà artistiche, di rivoluzione, rinnovo, di potere magnetico dell’immagine, di senso della visione e dello spettacolo. Insomma, ad ogni film mancava un pezzo, o talvolta mancava tutto, ma puntualmente, non si sa come, era migliore del precedente: e giocano tra di loro, nella loro mediocrità, e, cosa ancora più triste, inutilità. Poi vai a vedere Spider-man: Homecoming con tutte le riserve del caso legate a quanto scritto sopra, ma anche ad un trailer tremendo, e ne esci invece sorpreso. Non solo perché hai assistito ad uno spettacolo piacevole (il che quando spendi dei soldi è sempre auspicabile), ma anche perché ti ricordi, con meraviglia, che il cinema, con semplicità e cognizione, può abitare anche dentro queste produzioni, e dentro queste macchine da soldi. Che basta un pizzico di coraggio, e un pizzico di conoscenza e di sensibilità artistica, per dare vita ad un prodotto, nemmeno discreto o buono (e Spider-man: Homecoming lo è), ma quanto meno degno. Degno di essere chiamato film. Degno di avere un suo perché, e una sua ragione d’esistere.

Il merito di questo è da ricercare in primis nella sceneggiatura, il vero tallone d’Achille di moltissimi film Marvel, o DC Comics. Nel nostro caso il folto gruppo di sceneggiatori di Spider-man: Homecoming non ha fotocopiato nulla, non ha ripreso in blocco la stessa sceneggiatura usata costantemente da qualche anno a questa parte, e non l’ha riciclata qua e là per ingannare lo spettatore, che non è stupido, ed è anche stanco delle solite storie trite e ritrite che sanno di stantio. Qui è stata scritta da menti e cuori umani: che prima creano un personaggio, poi lo amano, e infine lo rispettano. Il Peter Parker (alias Spiderman) del giovane attore britannico Tom Holland è un adolescente, vive da adolescente, pensa come un adolescente, e fa l’adolescente. Come a volte capita a qualche adolescente, anche a lui viene richiesto qualcosa di più grande: di fare i conti con responsabilità derivategli da superpoteri, che gli porteranno superdifficoltà e problemi. Goffo, stupido, sprovveduto, irruento e poco razionale, questo Spiderman non ne azzecca una. E perciò entra dentro quel processo formativo tipico del genere “coming of age”, che lo porterà a maturare, e a comprendere se stesso, e il suo ruolo: capire che c’è un tempo per ogni cosa, come suggerisce il libro del “Qoelet” nella Bibbia, che ogni età ha i suoi spazi e le sue esperienze, e che fare il salto troppo presto può solo portarti ad una rovinosa caduta. Il bimbo ragno del film di Jon Watts vola tra i palazzi, lanciando ragnatele, e facendo volteggi e capriole, respirando libertà e assaggiando onnipotenza, ma scenderà a patti con il suo lato umano, intuendo che potrà diventare grande, o uno della squadra degli Avengers, quando saprà mantenere i piedi ben saldi a terra. Essere insomma un semplice “Spiderman di quartiere”. E anche Spider-man: Homecoming comprende di dover camminare saldo a terra, di essere innanzitutto un teen movie e un “romanzo” di formazione: ne sposa quindi i codici, le modalità, ne fonda la sua scrittura, e la sua essenza, tra scuola, amici stravaganti, momenti ironici, domande esistenziali e scelte affrettate, e i primi amori. Crea un microcosmo adatto al suo personaggio: si abbassa a lui, lo guarda alla pari, ed evita di trasbordare con esagerazioni e megalomanie visive e narrative. Perché la confezione da “film di supereroi” viene successivamente in aggiunta, a modellare la forma e l’aspetto di questo film adolescenziale. Dentro questo microcosmo tutto, o quasi, torna: torna l’idea di un cattivo semplice, terreno, che non ha pretese di distruggere o conquistare il mondo, ma solo di fare un sacco di soldi per mantenere la sua famiglia, e mantenere questa sua attività illegale nascosta. Torna che gli Avengers rimangano da sfondo, se non per le comparsate del mentore Tony Stark, o dei video stimolatori, ma ironici, di Captain America. Torna che zia May sia giovane e bella, come non può essere altrimenti con il volto di Marisa Tomei, perché vicina al suo giovane nipote, a dispensare consigli su come andare ad una festa, o come vestirsi e atteggiarsi al primo appuntamento con una ragazza. Torna che anche le drammaticità siano prese con leggerezza, ma mantenendo un equilibrio necessario e non stucchevole.

Sono quelle sceneggiature che si piegano al loro personaggio, che creano attorno a lui un contesto credibile, che non lasciano indietro i personaggi secondari, come semplici pupazzi da fare da sfondo, ma che anche con poche battute o gesti li rendono già riconoscibili ed empatici. Le sceneggiature che si prendono qualche libertà, che permettono alla scena di terminare un attimo prima, nel momento del suo climax, o di aggiungere una coda inaspettata: per distendere un momento drammatico con punte di ironia, o per aumentare la portata emotiva della scena. Sono questi tocchi, leggeri ed estemporanei, rari, che già certificano la bontà di una scrittura. E sono queste sceneggiature che ogni regista vorrebbe affrontare, e raccontare con il linguaggio filmico e con la sua macchina da presa. Chiedetelo a James Gunn, per esempio. Jon Watts quindi fa quello che deve: non tradisce fondamenta solide, perché coerenti, equilibrate e cementificate dalla ragione per cui sono state poste; dirige i giovani attori con maestria; concede a Michael Keaton la possibilità di rendere forte un villain altrimenti normale e umano, attraverso primi piani, diretti o riflessi su qualche specchietto, capaci di prendersi tutto il grande schermo e suggerire le ambiguità di un personaggio malvagio, che protegge e tutela la sua squadra di lavoro ed ama la sua famiglia. Permette, infine, al suo film di staccarsi dalla moltitudine piatta dei film Marvel, senza avere le pretese del quadro epico, più maturo, profondo, dipinto da Sam Raimi con i primi due Spiderman, ma accontentandosi di un profilo basso, semplice, tarato ad altezza adolescente. E di essere coerente, finalmente! Rispettando così l’intelligenza e la predisposizione del suo pubblico. Che è tutto.

Voto 7 su 10

Simone Santi Amantini

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