THE POST, un’opera sull’importanza della scelta che ti chiede di scegliere ancora una volta il cinema

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Ogni volta che un film di Steven Spielberg viene proiettato dentro una sala cinematografica si attua un vero e proprio processo fantasy: passiamo attraverso il nostro personale armadio, lo stesso che permetteva ai fratelli Pevensie di raggiungere Narnia, per entrare nel nostro mondo parallelo, magico, onirico. Il buio di una sala è squarciato da un fascio di luce che proietta su un grande schermo bianco immagini di una nuova realtà, o meglio, una realtà rinnovata. Questo al di là, dove ben presto ti trovi, ti sorprende sempre, ma ti abbraccia e ti avvolge in un’atmosfera così familiare che senti ti appartenga da sempre. Dentro questo mondo, che lentamente inizia a colorarsi di emozioni e sentimenti, e a mostrarsi per quello che è principalmente ed essenzialmente, resti te stesso per diventare un te stesso migliore. Quello di Spielberg è sempre stato un cinema necessario, indispensabile. Con The Post, manco a dirlo, si ripete questo miracolo del quotidiano: siamo immersi nel mondo-Cinema, un luogo che non può che essere amato così, in tutta la sua disarmante, profondissima, semplicità.

Perché il cinema di Steven Spielberg è sempre prima di tutto, semplicemente, se stesso. È cinema, dunque. E lo ami proprio perché lo conosci per quello che è. Lo ami per ogni inquadratura: ogni carrello descrittivo, ogni piano sequenza, ogni primo piano, ogni movimento della macchina da presa, ogni suo dettaglio esteriore; per i suoi colori, le sue luci, quei tocchi magistrali della sempre sontuosa fotografia di Janusz Kaminski (come si fa a non candidarla al premio Oscar?) che dipinge, letteralmente, la Storia, bagnandola della luce prodigiosa della storia con la “s” minuscola, che crea poi le atmosfere da film di inchiesta, ma con pennellate e sfumature del dramma più intimo e personale, specifico ed umanissimo, per restituire, infine, un quadro completo perfettamente composito e coeso. Lo ami per le interpretazione degli attori, su tutti una Meryl Streep che all’età di 69 anni riesce ancora a menarla a tutti come le piace e pare, nei panni di Kay Graham, prima donna al comando del Washington Post che nel 1971 pubblicò nel suo giornale i “Pentagon Papers”, documenti top secret del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America che rivelavano nel dettaglio le implicazioni militari e politiche – con tutto il contorno di oscurità, menzogne, e manovre – degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, infierendo un duro colpo al governo e al presidente Nixon. Al suo fianco, in questa impresa, il coraggio e la spregiudicatezza, il senso del dovere e il rispetto, del direttore aziendale Ben Bradlee, interpretato da Tom Hanks, che duetta con la Streep in un perfetto ballo di coppia, disinvolto, naturale, vero.

Un cinema che ami, a maggior ragione, per ciò che dice, ciò che racconta, per come sa prendere la Storia e renderla, ancora una volta semplicemente, storia, senza sminuirla, ma anzi innalzandola, attraverso proprio il linguaggio artistico, la tensione narrativa, la creazione dei personaggi, e innervandola di sentimenti, emozioni, e di quella sana retorica che, come accade spesso nella poetica spielberghiana, diventa virtù. Lo ami, dunque, per ciò che insegna. Perché sì, come si evince da quanto scritto, il cinema di Spielberg insegna, e lo fa senza premeditazione, lo fa perché non può non farlo, perché è quello che è, così com’è. Insegna cinema innanzitutto, come se l’opera diventasse oggetto paradigmatico del più comune dei corsi di cinema sulla storia di questa arte, il suo linguaggio, i suoi elementi base, in un accademismo puro, ambendo sempre ad essere schietta forma antologica.

Insegna, poi, molto altro. In The Post c’è una donna che fa parte di un élite, ma trova il coraggio di porsi contro, di affermare il valore primordiale della libertà, nel suo significato universale, prima ancora che nello specifico come libertà di stampa, che è il vessillo esibito, invece, da Ben Bradlee, felice conseguenza del primo. C’è la difesa di un giornalismo che riscopre la sua indiscutibile priorità di stare non con i governanti ma i governati: di difendere il loro bisogno di sapere, il loro diritto a conoscere, il loro spirito critico. The Post è anche un film attualissimo sull’America di oggi, ma addentrarci, scrivendone, in tali questioni rischia, paradossalmente, di svilire la potenza innata dell’opera di Spielberg. The Post insegna l’importanza vitale della scelta, di un sì e un no, e del dovere di responsabilità nelle conseguenze. Per questo motivo quella scena di Kay Graham al telefono, quella lunga attesa prima della risposta, diventa il centro di gravità non solo del film, ma di ogni esistenza umana. Scegliamo. Decidiamo. È questo che ci differenzia, è questo che ci stacca da tutto.

E al cinema di Steven Spielberg, ormai da anni, abbiamo risposto con un deciso e lunghissimo sì.

Voto 9

Simone Santi Amantini

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