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“Ready player one”. Il cinema come ponte per la realtà

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Comincia Ready Player One e bastano pochi secondi per riconoscere la griffe tipicamente spielberghiana: quel movimento di macchina, quasi a coprire una sola ed unica sequenza, che dall’alto delle “cataste” di Columbus dove vive Wade Watts con la zia Alice, si abbassa fino a terra, seguendo questo giovane protagonista, taciturno, apparentemente depresso, che attraversa un “cimitero” di macchine ammucchiate ed accumulate, si incunea tra due di esse, per poi entrare nel retro di un furgoncino: qui c’è il ponte che lo porta nella realtà virtuale OASIS, essenzialmente un videogame, creato da James Halliday (Mark Rylance), strapieno di riferimenti a tutta la più variegata cultura pop che ha influenzato e segnato l’esistenza del suo autore. Siamo solo all’inizio e la narrazione cinematografica di Steven Spielberg si manifesta in tutta la sua potenza con una macchina da presa che semplicemente muovendosi nello spazio e nel tempo ci racconta già molto di tutto quello che andremo a vedere: che c’è un nesso, un incrocio, tra il cielo e la terra; che c’è un mondo che ha dimenticato di vivere e accumula reperti in disuso; che c’è una realtà altra che ha sostituito proprio questo mondo reale; che la storia attende di essere riscritta da chi meno ti aspetti, e attraverso una gara, un po’ come il Charlie della celebre Fabbrica di Cioccolato.

Siamo dentro. Siamo in Ready Player One. Siamo dentro il nostro OASIS. Da lì in poi il film sarà intrattenimento allo stato puro, goduria cinematografica limpidissima: vorace ma autentica, passionale ma vera, piena ma dettagliata, superficiale ma riflessiva. Spielberg lascia alla CGI il compito di creare un affresco imponente, ricco di suoni e luci, suggestivo, di creare avatar e volti finti, elementi, macchine, robot, scenografie e strutture architettoniche del mondo virtuale, ma si serve della pellicola per ogni scena in “live action”: come a dire, sì proiettiamoci nel futuro, ma restiamo ancorati alla realtà, quella grezza, ruvida, sporca, imperfetta della pellicola. Quella del cinema di una volta, del cinema d’avventura che sapeva raccontare storie, che sapeva essere cinema curato in ogni virgola della sua sintassi, che sapeva trasmettere e nutrire interesse nel senso più compiuto di tale affermazione: era l’evasione dalla realtà, che come suggeriva Tolkien parlando della Fiaba, non è la diserzione del guerriero, ma la santa fuga del prigioniero. Non partiamo per trovare un altro da noi, ma per cercare noi stessi. Torniamo perché è laggiù, nelle fiabe, nel cinema, che abbiamo trovato il vero ponte che ci rimanda di qua: è questo il paradosso. OASIS non solo dà la possibilità ai suoi protagonisti, Wade, Samantha e il loro gruppo di amici, di vivere esperienze altrimenti impossibili in un mondo reale devastato e compromesso al business, ma di farle diventare possibili, di toccare la superficie di uno specchio che dietro la maschera virtuale nasconde il tuo vero volto, di scendere a patti con le proprie miserie e ritrovare il senso di un’umanità perduta: il contatto umano laggiù diventa necessità di contatto reale; un ballo tra uomo e donna e un bacio nel mondo virtuale sono il coraggio che ti spinge verso l’altro/a in quello reale; la sfida non è nell’andare, ma nel tornare; la gara non è avanti, ma indietro; la prova è con il vero me che non vuole vivere nella realtà; l’eredità non sono soldi e potere, ma comprensione e condivisione, lacrime, amore, pietà.

Ready Player One è il nostro OASIS. E Ready Player One è Cinema. Il cinema è il nostro mondo virtuale: è in quella sala buia che si attua il miracolo e la magia dell’impossibile, è lì dentro che entriamo in una realtà parallela, ludica sempre, filosofica a volte. Esseri sognanti, che condividono un’esperienza altra, una fuga dalla realtà per l’accesso ad un mondo migliore, che Steven Spielberg popola da sempre di creature, riferimenti, paure, Storia, extraterrestri, mostri immaginari e altri reali; di passioni e sentimenti, di sentimento religioso e mistico, di pragmatismo, di cupezza e speranza; che modella con la ricercatezza e l’essenzialità di scopo di un’inquadratura; che, come in questo caso, dipinge con la luce e i riflessi di Janusz Kaminski, che amalgama con la colonna sonora di Alan Silvestri, sospesa tra citazioni e originalità; e poca importa che lo script a volte scivoli via un po’, si dimentichi di tratteggiare meglio qualche personaggio, e non badi con più attenzione alla verosimiglianza di certe situazioni (soprattutto nell’ultima sfida del gioco). L’importante è che si riconosca sempre dietro a tutto questo la voce di quell’eterno fanciullino – di rimando pascoliano – che da sempre vive dentro l’animo dell’autore di Cincinnati, anche oggi, all’età di 70 anni. Un fanciullino che vede bellezza in tutte le cose, che si diverte con OASIS e il suo tripudio di riferimenti ludici, musicali, cinematografici, che conosce il potere salvifico del cinema, ma che sa anche, nell’estrema facilità e semplicità dell’affermazione, che “non c’è niente di più reale della realtà”. L’illusione finisce, sempre. Ma resta con noi nel mondo reale, per aiutarci a vivere.
È lui, Steven Spielberg, l’easter egg del Cinema: la chiave finale, la chiave di volta, attraverso la quale prima o poi (e lo stiamo già facendo) dovremmo riconsiderare tutta la Settima Arte.

Simone Santi Amantini

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