LA “COSCIENZA INFELICE”  DELLA “DOLCE VITA”

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Si è tenuto a Roma nei giorni scorsi presso la sala della Protomoteca del Campidoglio il convegno internazionale “La Dolce Vita – quando Roma era l’ombelico del mondo”  organizzato dall’Associazione Naschiria per Barrett International Group col patrocinio di Roma Capitale e del Senato della Repubblica

Per gentile concessione dell’Organizzazione e dell’Autore  pubblichiamo l’intervento di Enrico Bernard

La definizione per antomasia de “La dolce vita”  è notoriamente quella del “dolce far niente”, del “carpe diem” dei felliniani “vitelloni” o del Bruno Cortano, il nullafacente protagonista de Il sorpasso. Basta del resto digitare  online “dolce vita” e i risultati saranno luoghi di piacere, svago, relax.

Ovviamente non sfugge – neppure ad uno spettatore distratto  – che dietro a questo atteggiamento menefreghistico, strafottente, che si concretizza nello sberleffo ai “lavoratori de sta mazza”  del “vitellone”  di Alberto Sordi del film di Fellini, cova un’ansia, un senso di incertezza, si direbbe perfino di tristezza pensando per esempio all’atteggiamento  da filosofo esistenzialista di Marcello ne La dolce vita:  un sottotesto che è comunque in contrasto  con la vulgata, a livelo mondiale,  che attribuisce esclusivamente gaiezza e spensieratezza alle opere del periodo. Le quali sono state così travisate e mistificate nell’ottica di una interpretazione  riduttiva e semplicistica.  A ciò contribuì anche il famoso, quanto spontaneo  spogliarello di Aiché Nanà che, immortalata dai magazine d’oltreoceano, divenne il simbolo della rinascita di una Roma che tornava ai fasti e ai baccanali imperiali – un’immagine che serviva anche per la commercializzazione,  creando scandali e storie di amori tra le star del cinema, dei kolossal  ambientati nella Città Eterna.

La diffusione di questo mito mediterraneo e latino, ma romano in particolare – poiché è facile sposare l’atteggiamento cialtronesco del nullafacente con l’atavica pigrizia e strafottenza del “romano de Roma”  al quale piace godersi la vita e l’ozio –  ha finito dunque per offuscare gli aspetti più socialmente critici delle opere in esame.   Perciò bisogna insistere sul fatto che, a  dispetto di questa vulgata,   le storie del cinema della “dolce vita” finiscono invece spesso e volentieri  in maniera  amara,  cruda, se non proprio tragica come nell’incidente mortale alla fine de  Il sorpasso. La macchina dei vitelloni che spernacchiano i lavoratori  ha un guasto improvviso  e gli operai inferociti raggiungono di corsa i fannulloni per dargli una bella lezione. La tragedia  incombe anche su Gelsomina e Zampanò  ne La strada. Er Pantera de I soliti ignoti  di Monicelli è costretto a farsi assumere in cantiere dove “si lavora, sul serio” per sfuggire ai carabinieri dopo il  colpo andato male;  ed anche perché la vita reale si è fatta strada nella sua coscienza e lavorare per mantenere una famiglia nascente diventa una “tragica” necessità.  Ho già detto del velo di tristezza e di angoscia esistenziale che ricorda  “la noia” di Sartre del Marcello de  La dolce vita… Insomma, ce ne è abbastanza per ribaltare il concetto fin troppo riduttivo che equipara le opere della dolce vita ad una sorta di apoteosi del Dolce Far Niente.

Fellini del resto  fonda  la sua opera su un back ground inizialmente marxista,  poi socialista, comunque critico della società borghese. Beniteso,  il maestro riminese coltivò, fin dai primi ’50 quando uscì   La strada,  rapporti non proprio idilliaci col Partito Comunista . Il film fu infatti osteggiato dalla critica di sinistra per il tono fiabesco e per la rappresentazione  onirica della questione sociale della miseria e delle condizioni del sottoproletariato interpretato  dal duo circense di Gelsomina e  Zampanò. Tuttavia, nella difesa de  La strada,  dagli attacchi che gli piovevano da sinistra, Fellini difese un principio “marxista” che lui sentiva profondamente insito  nella sua opera.  In risposta  (Il contemporaneo  a. II. n. 15, 9 aprile 1955) a   Massimo Mida che lo aveva recensito nelle pagine del’Unità contestando il tradimento dell’impegno sociale e l’abbandono della via maestra del realismo socialista, cui secondo il  critico vicino a Togliatti  si sarebbe dovuto attenere  La Strada, Fellini risponde appellandosi proprio a Marx sia pur nella “lettura” più libertaria del Partito Comunista Francese:

Tutto il vostro punto di vista di marxisti acquista per me un valore relativo, se paragono le vostre critiche a quelle dei marxisti che in questi giorni hanno visto il mio film a Parigi.

E poi continua così Fellini:

Credo che oggi il capovolgimento da un individualismo a un GIUSTO SOCIALISMO, per essere persuasivo, dev’essere tentato e analizzato come BISOGNO DEL CUORE…. La SOCIETA’ deve nascere come bisogno profondo dell’esistenza.

Il corposo intervento di Fellini, ricordo che siamo nel 1955,  si configura allora come un manifesto teorico che include  il percorso felliniano da  I vitelloni   (1953) a La dolce vita, del 1960. Unitamente con La strada (1954)  si viene così a formare una trilogia per le sceneggiature firmate di volta in volta dal commediografo Tullio Pinelli, da Ennio Flaiano e Pierpaolo Pasolini. I nomi di questi grandi e impegnati scrittori  lasciano  intendere come non sia concepiblie parlare di queste opere solo sotto il profilo “edonistico”,  fanciullesco, o peggio ancora goliardico,  insomma senza tener conto  degli aspetti critici e di impegno politico che esse esprimono.

A questo proposito bisogna citare un altro passaggio dell’intervento del 1955 del regista  romagnolo che spiega così il suo intento politico-sociale, un’anticipazione teorica di quello che sarà il carattere del Marcello istigato da Anitona a buttarsi con lei nella vasca della Fontana di Trevi:

Il nostro male, di noi uomini moderni, è la solitudine, e questa incomincia assai in profondo, alle radici dell’essere, e nessuna ubriacatura pubblica, nessuna sinfonia politica può presumere di levarla facilmente.  C’è invece, a mio avviso, tra persona e persona, il modo di rompere questa solitudine, di far passare come  un messaggio  tra l’una e l’altra e di comprendere, dunque, di scoprire  quasi, il legame profondo che lega l’una all’altra.

Emerge così l’importanza di un legame profondo tra persone isolate, dunque, che, una volta stabilitosi tramite l’arte si trasformi in un legame pubblico, politico.  Ecco la missione del cinema,  secondo Fellini: altro che elogio del dolce far niente!

Rimando ad altri miei interventi la ricostruzione storica della tecnica drammatica di nascondere il serio nel faceto, la protesta nell’ironia e nel comico: qui  sintetizzo dicendo che si tratta di  una tecnica   antichissima che serve   a ” far passare” i contenuti impegnati attraverso il dosaggio della “leggerezza” (Calvino ha dedicato une delle lezioni americane al tema) sia per aggirare la censura morale dello spettatore, quindi per farlo sentire “sicuro”, sia la censura  poliziesca o sociale. Fellini insomma conosce  questa particolare tecnica che innesta la critica sociale e il dramma in  quelle “ragioni del cuore” e del “sentimento ” di cui parla nel suo “manifesto”. Ma non è il solo a farlo, ed è per questo che il genere della dolce vita  – perché tale è allora da considerarsi – rappresenta sì una costola della nascente commedia all’italiana, ma va propriamente inquadrato nell’evoluzione del neorealismo, che fin dal suo esordio  nel 1945 non rinuncia ad una soffusa ironia anche nella tragedia più cupa.

Basti pensare a Roma, città aperta  di Rossellini. La famosa scena della morte di Pina (Anna Magnani) colpita  dalla mitraglia nazista sotto gli occhi del figlioletto mentre insegue il camion col marito deportato, scena di fortissima emotività tragica, è preceduta da una sequenza comica in cui l’arzillo nonnetto  non si dà pace,  fa rumore durante il rastrellamento tedesco e viene messo a tacere dal prete Don Pietro, impersonato da  Aldo Fabrizi,  con una comica padellata in fronte!

Molti esempi si potrebbero citare  a questo proposito. Mi limiterò a Riso amaro  di Giuseppe  De Santis del 1949. Film che ovviamente si riallaccia al grande filone del neorealismo,  ma che in qualche modo anticipa alcuni elementi di quella che nei primi anni Cinquanta sarà la fase preparatoria della dolce vita,  se non altro per la sua gestazione: galeotta in questo caso fu proprio via Veneto alla fine del 1947 quando il regista ciociaro incontrò casualmente l’avvenente e  ancora sconosciuta Silvana Mangano in un bar di quella via che stava per assurgere ad “ombelico del mondo”, come lo stesso De Santis racconta in un’intervista al suo biografo e studioso Antonio Vitti.

Non è infatti un caso che anche  Riso amaro, come accadrà qualche anno dopo a La strada  di Fellini, venga  attaccato  dalla critica di sinistra: De Santis viene considerato “reo” di aver mescolato al tema sociale delle mondine nelle risaie  aspetti erotici o modaioli (per una dettagliata ricostruzione di questo episodio rimando all’ottima monografia di Antonio Vitti edita da Metauro). Risultano scandalose alla “parrocchia” perbenista comunista non solo le belle forme di Silvana Mangano, ma anche i riferimenti alla ormai sdoganata american way of live  che condiziona le  contadinotte che nel film bevono  coca cola o  si dimenano in rock’en roll o boogie woogie –  balli e comportamenti estranei alle tradizioni socialiste.  Eppure De Santis era un convinto marxista,  schierato  senz’altro ancora più a sinistra dei suoi critici comunisti.  I quali non capivano, come nel caso di Fellini, che la critica sociale e il messaggio politico del film non potevano essere  esplicitati attraverso proclami di partito, avevano bensì bisogno di un innesto “leggero”,  di uno strumento non ideologico bensì di divertimento  – cioé di fiction – in cui i contenuti impegnati potessero trovare gradimento (e ascolto) da parte del pubblico.

Non mi soffermo  sull’amara, mi si consenta il pleonasmo, vicenda di Riso amaro  che  procurò al regista  molte difficoltà professionali:  scomunicato dai comunisti ed esorcizzato come il demonio comunista dai democristiani (famosa l’uscita di Andreotti: er Ciociaro nun deve più lavorà!) faticò a trovare finanziamenti ed ingaggi.

Un caso a parte,  continuando con De Santis, è però  La Garconierre  del 1960. Il film interpretato da Raf Vallone rientra, come periodo e come tematica, in quel genere della dolce vita  che rappresenta il preambolo della nascente commedia all’italiana.  Se oggi infatti consideriamo la commedia all’italiana come una forma di cinema critico dei costumi e al contempo di una immediata presa sul pubblico per i toni ironici,  grotteschi e comici, questo in parte lo si deve proprio al cinema della  dolce vita  in cui leggerezza e critica sociale trovano un trait d’union ideale.

In questo contesto  La Garconniere  rappresenta un passaggio  cruciale.  De Santis si districa benissimo, anzi ne fa un principio teorico del suo cinema, nelle tecniche del cinema anche hollywoodiano: usa l’epica del western parlando della resistenza e delle lotte contadine, sfrutta l’erotismo nel trattare il tema delle raccoglitrici di riso.  Temi e atmosfere non estranee a La Garconniere che tra scene di letto, scozzattate, sfuriate di mogli e amanti,  sembrerebbe, ma sottolineo il condizionale dubitativo,  connettersi  al genere del cosiddetto neorealismo rosa che sfuma i toni impegnati del primo neorealismo edulcorandoli in piccole vicende umane e sentimentali.  Sembrerebbe, dunque, ma non è così.

Tanto per cominciare, a scrivere la sceneggiatura con De Santis  sono scrittori e sceneggiatori  politicamente impegnatissimi  come Tonino Guerra, Ugo Pirro e tra questi lo scrittore Carlo Bernari, autore di Tre operai  che nel 1934  rappresenta la disfatta operaia del primo ventennio del Novecento che porta al fascismo.

La Garconniere  fin dal titolo indica un interno borghese in cui esplode l’ipocrisia e la vigliaccheria di un uomo di mezza età che illude l’amante e mente alla moglie costituendosi una doppia vita della quale è poi costretto a pagare le conseguenze morali. Il piacere erotico e il godimento del sesso con una fanciulla avvenente è,  infatti, guastato dalla sofferenza della moglie che, scoperto l’inganno, mette la coppietta in  imbarazzo riuscendo a provocarne l’ansia e a minare il rapporto tra il marito fedifrago e la sua giovane spasimante.

Una storiella apparentemente semplice e quotidiana in cui emerge il dato della critica sociale ad una classe borghese che smarrisce il senso della sua funzione di classe e la percezione della moralità per dar sfogo ai suoi istindi più bassi, epperò vergognandosene nell’intimo, cioé vivendo la “scappatella” con un profondo senso di angoscia. Che non è più un sentimento “individuale”  (vedi la precedente citazione della lettera di Fellini) ma una sorta di collettiva  coscienza infelice. Un sentimento, uno stato danimo, una percezione e rappresentazione critica della realtà che contribuiscono al ritorno all’impegno neorealista, sia pur sotto diverse spoglie,  dopo la breve parentesi del neorealismo rosa di Poveri, ma belli  o Pane amore e fantasia, ed altre pellicole del filone “rosa”.

Se è vero, del resto,  che ne La Garconniere  permangono forme e stili tipicamente neorealisti che incupiscono la storiella del tradimento attribuendole una forte dose di critica morale, più leggera ma non meno tragica è la sceneggiatura che lo stesso Carlo Bernari consegna a Pietro Germi per il duo Tognazzi-Sandrelli. E’ la storia di uno sciupafemmine che a cuor leggero sposa e mette incinte ragazze ingarbugliando la sua esistenza in una poligamia che diventa addirittura insostenibile trigamia! Ma poi la vita e la realtà gli presentano il conto: dopo la presa di coscienza guardandosi in uno specchio che ne distorge l’immagine cui il protagonista rivolge a se stesso l’epiteto  sei un mostro!, la morte per infarto chiuderà la sua non esamplare esistenza borghese.

Con L’immorale  – titolo già emblematico – del 1964 si conclude dunque il periodo della “dolce vita” e si apre  quello  della commedia all’italiana di cui ben si conoscono i risvolti critici e ironici di quello che Giordano Bruno definiva: in tristitia hilaris, in hilaritate tristis.

Enrico Bernard

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