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Cleonice Fecit. Tra teatro e fotografia d’autore

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L’arte trasuda da tutto quello che dice, da tutto ciò che fa. Quando parla di teatro, di fotografia e di cinema, gli occhi le si illuminano e la voce si fa spesso sottile, le parole appositamente studiate. Tutto ha un peso, soprattutto ciò che le sta a cuore davvero. Per lei, l’arte ha il potere sotterraneo di rivoluzionare il mondo. Ma con grazia e bellezza, non irruenza e muscolarità. Pensava  di fare l’archeologa, oggi si definisce un ibrido fra teatro, arte visiva e fotografia, “con qualche guizzo verso il cinema – aggiunge lei – ma il mio sogno rimane poter vivere di quello che faccio stando in ascolto con i cambiamenti costanti che la vita danzandoti attorno ti presenta”. Sarà che il suo nome vero – Cleonice Fecit – nasconde un qualcosa di aulico e latineggiante che la rende già di per sé un personaggio. Il resto lo hanno fatto gli anni di formazione, le scuole specializzate e le esperienze sul palcoscenico. Oggi, a 36 anni, Cleonice è un’artista che nel curriculum vanta esperienze privilegiate nel teatro sperimentale e collaborazioni importanti con figure di riferimento del teatro italiano. Ma non solo. Ha cofondato una compagnia di arti performative della quale è responsabile, e si sposta tra Italia, Spagna e Francia. (www.diasporaweb.org). A completare il quadro, qualche inevitabile “caratteristica” degna di qualsivoglia artista. Nel suo caso, c’è la tenera compagnia delle caprette Pepita e Giuditta, “un flagello” dice ridendo, e di Peck, lagotto epilettico iperattivo, nel casale in cui vive nelle campagne cremonesi, che è un elemento da non sottovalutare! “Un fondamento” dice lei tornando serissima. Ce n’è a sufficienza per ridere, salvo poi tornar attenti quando Cleonice racconta i suoi studi in Accademia di Brera in Scenografia e costume con 110 e lode e i primi passi mossi verso il teatro con Renzo Casali e la Comuna Baires. Dopo tre anni con maestri dell’Actor’s Studio e del Moscow Art Theatre, lo spostamento dalla ricerca stanislawskiana per riavvicinarsi alla danza. Impossibile chiederle di fare una classifica. Ogni ciclo di vita ha avuto il “suo” momento. “Ma, da diversi anni, l’indagine è il più possibile legata a quei linguaggi che si nutrono di contaminazioni continue tra il fare scenico e la realtà che scorre nelle strade e nei luoghi non adibiti all’arte. Con il gruppo Strasse di Milano e Leonardo Delogu ha virato nella direzione di aprire alla live performance con spettacoli che agiscono insieme al flusso del quotidiano, per cercare uno spostamento di sguardo sia per chi è performer che soprattutto per lo spettatore. La volontà di spezzare divisioni, spazi scenici e ruoli classici, per interagire col contesto e con chi guarda.

Che ruolo ha avuto la formazione nel tuo percorso artistico?

Nel teatro, la formazione con la Socìetas Raffaello Sanzio mi ha insegnato la cura per il più piccolo dettaglio, l’ attenzione all’insieme, allo sfondo, a quello che resta celato e non deve dichiararsi. Fondamentali sono stati anche maestri come Danio Manfredini, Adriana Borriello e Silvia Rampelli, e il lavoro con Teatro Valdoca che mi ha permesso di lavorare sull’immagine e sulla presenza in un tempo ridottissimo. E’ studiando in Socìetas che ho incontrato Arianna Sortino e Belén Tortosa Pujante, le mie compagne, con le quali ho fondato diàspora, attiva da poco più di 1 anno. Non voglio escludere il cinema ma mi sono dedicata principalmente al teatro in questi anni.

La tua compagnia è una “creatura” alla quale tieni in modo particolare.

diàspora è il tentativo di creare uno spostamento lucido del punto di vista sulla realtà delle cose. Lavoriamo spesso con elementi vacui, come la polvere o il vapore acqueo, con la luce naturale che penetra all’improvviso da uno spiraglio nell’oscurità di uno spazio buio trasformandolo, e questo perché ci commuove l’evidenza cosi effimera e quindi potente dell’esistenza.

Un tema che ricorre spesso nel tuo pensiero.

Il teatro permette di lavorare nella massima vicinanza con la condizione umana, intrisa di fragilità. Il nostro percorso di compagnia prosegue, entro fine giugno vorremmo rappresentare il nuovo spettacolo “Nàsci”. Quello che ci unisce è lo stupore con cui sempre guarderemo questo mondo, e il tentativo di destabilizzare quei codici saldi che definiscono la realtà come una forma data e immobile. Tutto è in azione, come un liquido che non può stallare.

Hai sfruttato i social per farti conoscere?

I social sono un mezzo comodo e facile per promuovere attività, e ho diffidenza a dare “amicizia”: mi stranisce molto come certe parole abbiano smarrito la loro origine e come basti cliccare like o sostituire faccine per sintetizzarsi.

Riavvolgiamo il nastro e partiamo dalla fotografia: com’è iniziata questa avventura?

Alla fotografia ci sono finita per casualità, posavo per amici pittori e scultori e poi c’è stata la fotografia. Importante la collaborazione con Florindo Rilli, perchè scatta con estrema invisibilità e lascia lo spazio di una distanza, essenziale per lavorare insieme a un progetto.

Che effetto fa stare al centro dei riflettori?

Stare davanti a una telecamera o a una fotocamera è avere una direttissima spinta verso se stessi come artefici o pura presenza. E’ fisica, e influisce sul tuo stare. Poi te ne dimentichi e entri in una assenza. Ci sei ma allo stesso tempo non sei li. Sei assente anche dall’obiettivo eppure qualcosa viene impresso. E quello comunque non sei già più tu. Questo sapersi tangibilmente sempre in corso e sempre diversi è quello che mi da la vertigine e mi fa stare bene mentre scatto.

C’è una chicca nella tua carriera.

Si chiama… Vogue. Sono stata pubblicata sulla rivista internazionale più celebre nel settore della moda. Un fatto che ho preso ridendoci un po’ su, perché accadono cose cosi e poi il nulla. Ora mi interessano i progetti che mettano il mio corpo e la mia immagine a servizio della streetlife o del lifestyle. Scatti vivi, anche crudeli e a tratti volgari, anche se di volgarità non si parla. Se devo pisciare la faccio e quello scatto inappropriato è quello che è, nella sua schiettezza. Mi fa sorridere che un corpo nudo faccia scandalo, o lo faccia un corpo malato, un corpo sgraziato, un corpo sbagliato. Che trasgredire delle convenzioni susciti scalpore. E’ ipocrita, e l’ipocrisia è volgare, non vedere il mio culo inquadrato quando non è glamour.

Passiamo al teatro…

Lo stare in scena è un’esplosione disarmante allo stato puro. E c’è il pubblico, l’elemento fondamentale. Il piano di finzione e realtà è compresso, la meraviglia è che poi non c’è più niente quando la luce si spegne, resta una visione personale solo per chi ha guardato. La sua caducità è carnale e condensa un senso di vita che credo solo il teatro possa riuscire a fare. E’ un bagliore. Tu sai che c’è stato, ma ne resta solo memoria negli occhi che l’hanno visto e se ne vanno via per sempre. E’ questo che da’ e questo che toglie. Da’ tutto. Toglie tutto.

Come vivi questi ruoli che ti vedono protagonista?

Di questi tempi l’esibizionismo è confuso con il fare arte. Per me deve rimanere sempre un segreto. E’ stato soprattutto questo che mi allontanò da certi metodi attorali. Quello che possiamo dare come interpreti è qualcosa che non sappiamo, è quel tenere nascosto più che rivelare che trovo importante, è quello stare nella presenza anche estrema e più esposta pur conservando la propria personale e unicissima ombra.

Ma il tuo percorso in questo mondo non è concluso.

Tutti i ruoli e tutti i lavori che ho fatto a loro modo sono stati basilari nel bene e nel male. Ho dei sogni, ancori tanti, ma li taccio, come le donne al terzo mese… porta sfortuna.

Torniamo al cinema, altro settore al quale strizzi l’occhio.

Per il momento ho raccolto poche collaborazioni e partecipazioni per film, fiction e pubblicità, andate in onda in Italia e all’estero. E’ un ambiente che mi crea spesso disagio ma mi attrae, quindi vorrei provarci davvero. Vorrei farlo dalla porta di servizio, attraverso il settore del cinema indipendente che stimo molto e che sento a me più affine. Il cine panettone magari lo lascio a chi lo sa fare, io non mangio carboidrati 😉

Visto da dentro, com’è questo mondo dello spettacolo?

Direi… molto bizzarro! Provo a orientarmi su quello che cerco e spesso lo trovo. Quando non lo trovo mi allontano per un po’, come un funambolo sul filo; Philippe Petit dice: ‘ appena traballi scendi, subito. Respira, calma, concentrati. Solo dopo riprova, ma saldo in te.’ Aiuto al bar Barlume di Bologna, un posto magnifico e fresco, in cui ho trascorso tutta l’estate con gioia, e quel pulsare di vita senza fronzoli mi fa rimettere in ordine i pensieri e le emozioni.

Spegniamo le luci del palcoscenico. Chi è Cleonice Fecit?

Un disastro, con un eccesso strabordante di difetti che ormai sono diventati pregi e viceversa. Invece ho diverse parole che faccio da sempre fatica a usare: ‘hobby’ è tra le prime. Cerco di essere coerente con le mie incoerenze e di vivere quello che faccio, appieno, tenendo una direzione che a volte si è smarrita per delusioni e precipizi ma che a un certo momento riaffiora e incendia ricarburando l’energia e la dedizione al lavoro e allora, anche se l’asfalto ti ha sbucciato le ginocchia, ti rialzi e ricominci a camminare.

Luca Fina

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