“SONO ANDATO A LETTO PRESTO” (Robert De Niro/Noodles, da C’era una volta in America)
Non potevo non aprire questo ricordo di Sergio Leone, scomparso prematuramente il 30 aprile di trent’anni fa, con quella che ritengo essere la battuta chiave di tutto il suo cinema, contenuta peraltro nella sua ultima e più grande opera. Mi piace immaginare che, se potesse tornare tra noi e gli venisse chiesto come abbia trascorso tutti questi anni (proprio come fa “Fat” Moe con Noodless nel film), il grande Sergio risponderebbe proprio così, citando ironicamente il suo personaggio.
Quanto ci manca Sergio Leone! Quanto manca al cinema italiano, anzi, al cinema in generale! Mancano le sue visioni, manca la sua vocazione unica di pensare in grande e la sua capacità di rendere concreti i sogni, manca la sua abilità nel raccontare l’America, sia quella passata che quella più recente, da autentico europeo, italiano e romano.
A Leone sono bastati sette soli film – in 30 anni – per entrare di diritto nel novero dei più grandi registi di sempre; la sua produzione, rapportata a quella dei cineasti più prolifici (come Woody Allen, giusto per fare un esempio), è senz’altro considerabile come limitata, almeno da un punto di vista meramente quantitativo, ma in compenso è straordinariamente elevata nella qualità. La sorte gli ha poi impedito di incrementare tale cifra, e di portare a compimento quello che forse sarebbe stato il progetto più colossale e ambizioso della sua carriera, L’assedio di Stalingrado: un titolo, purtroppo, soltanto ipotetico, visto che la morte del regista ha inserito l’opera nella dimensione eterea della leggenda, privandoci per sempre della possibiltà di poterla “toccare con mano”.
Una carriera straordinaria, quella di Sergio Leone, cominciata negli anni cinquanta con i peplum (film storici o mitologici in costume, ambientati principalmente nella Grecia e nella Roma dell’antichità), prima come assistente (in opere del calibro di Ben-Hur e Quo vadis?) e poi come regista (Gli ultimi giorni di Pompei e Il colosso di Rodi). Il grande successo, e l’inizio del “vero” Leone, è arrivato nel decennio successivo con la mitica “trilogia del dollaro” (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo), che ha inagurato il sottogenere del western all’italiana, meglio conosciuto come “spaghetti western”, poi ripreso da schiere di imitatori che non sono riusciti nemmeno ad avvicinare il modello originale. In questi film, anche grazie al sodalizio col Maestro Ennio Morricone, Leone ha dato forma concreta al suo ideale di Bellezza pura: la trilogia è un tripudio di immagini e suoni perfetti, una vera gioia per gli occhi e per le orecchie. I critici, pur riconoscendo la perfezione “cosmetica” di tali opere, ne hanno lamentato la mancanza di spessore ideoologico e di contenuti di più ampio respiro, specie se paragonate ai western di John Ford., valutandole perciò come formalmente impeccabili ma di una bellezza fine a se stessa. Per tutta risposta, Leone ha alzato il tiro già col successivo C’era una volta il West, suo ultimo western classico, e soprattutto con Giù la testa, la sua opera più politica ma anche la più fraintesa e sottovalutata, nonché l’unica uscita nel decennio dei Settanta. Poi, ben tredici anni di “silenzio” e una gestazione lunghissima per il suo fluviale (circa quattro ore di durata) capolavoro C’era una volta in America, che rimane uno dei momenti più alti di sempre per il cinema italiano, e non solo: anche gli spettatori degli Stati Uniti, dopo il fiasco della prima edizione americana, stravolta dagli interventi del produttore (che ha modificato il montaggio e tagliato un terzo abbondante del film), hanno in seguito avuto la possibilità di vedere l’opera nell’edizione originale, riconoscendone così il valore.
E’ doveroso ricordare, infine, che Leone è stato anche il primo sostenitore – quasi un “padre artistico” – di Carlo Verdone, del quale ha prodotto l’opera d’esordio, Un sacco bello (1980), oltre al successivo Bianco, rosso e Verdone (1981).
Francesco Vignaroli