Lo spettacolo è una possessione visionaria, un autentico attentato all’uomo e al retaggio strutturale della sua narrazione, oscena apparizione di un Satiro con gambe caprine e zoccoli, puro sberleffo del senso». Secondo Vicidomini, infatti, «la comicità non è un riflesso del sociale, è manifestazione indecente, dionisiaca e amorale che sconquassa l’ordine proiettato dall’uomo sulle cose, un cortocircuito tra quel caos meraviglioso che è la natura e il senso che la razza umana gli ha arbitrariamente proiettato». Il Fauno archetipico, dunque, si ridesterà su uno sfondo rarefatto e surreale, cantando il fallimento universale.
Al Teatro Vascello di Roma, fino al 26 maggio 2019
Nicola Vicidomini, creatore del tragico e al contempo esilarante benché demoniaco personaggio di “Scapezzo”, si definisce a ragione <il più grande comico morente>. Il che pur rappresentando un ossimoro, una contraddizione nei termini, si avvicina al vero. Nel senso che solo dal comico che muore può nascere un comico capace di esorcizzare la morte stessa e quindi ridere della propria fine. Non per niente la figura di Pulcinella, risalente all’antichità etrusca e alla farsa atellana, nasce dall’uovo come il pulcino, uovo simbolo di rinascita e di fecondità.
E’ in questo meraviglioso e arcano grumo di sangue lo spazio teatrale in cui si immerge trascinadoci con sé Vicidomini che tramuta il grembiule bianco di Pulcinella in un moderno abbigliamento intimo, mutandoni e canotta altrettanto bianche e sgargianti, mantenendo però il nero che lo incupisce sul volto, la barba folta e ispida, come una maschera risalente alla notte dei tempi.
Vicidomini ridisegna così il cammino dell’umanità attraverso la tragedia del capro espiatorio, inizialmente rivestito di una pesante pelliccia come si usava nelle antiche tragedie attiche, la pelle del capro indossata per ingannare Dioniso e incantarlo con la recita della propria tragedia umana (da qui “tragos” capra e “oedia” canto) guidato da un fauno che rappresenta il Dio incarnatosi per ascoltare il lamento. E pare pure che il Dio-Fauno caschi nell’imbroglio e conceda attenzione alla creatura che cerca di tagliare i fili del proprio destino.
Così il “pesce” o l’uccello che Vicidomini invoca e si tocca come una presenza fallica e simbolo di vitalità spumeggiante è un’invocazione alle orge bacchiche che il Dio-Fauno si appresta a scatenare previa fustigazione e sacrificio del capro espiatorio, ora scopertamente e tragicamente umano e non più caprino, che sopporta con tracotante ostinazione e propensione al male tutti i colpi del fato mandati dal Dio.
Lo spettacolo di Vicidomini è un vero e proprio pezzo di storia del teatro che rivive nella sua essenza più pura, primigenia. E’ un salto di millenni all’indietro, ma -intendiamoci- ciò per prendere slancio per compiere un portentoso passo in avanti con gli stivali delle Sette leghe dell’arte. In un attimo si annullano infatti drammaturgie sul palcoscendico del Vascello, si cancellano copioni e scenari, si azzerano marchingegni, si spengono i fuochi fatui della commedia borghese. Sulla scena non resta che la catena del sangue, del ghenos che raccorda in catarsi pubblico e attore in una osmosi che trasforma la vittima in carnefice di chi lo sta a sentire in un ribaltamento di piani e di emozioni: ora è lui, il capro espiatorio, a fustigare noi spettatori che saliamo sull’altare su cui dobbiamo essere a nostra volta immolati.
E di colpo svanisce anche il concetto di “sperimentazione”, se ancora si può parlare di qualcosa che le assomigli. Riletture di Pirandello, riscritture shakespeariane, Perlini e Carmelo Bene, Rem&Cap, Quartullo e Leo: possono andare tutti quanti a farsi benedire. Il teatro ritorna con Vicidomini nel suo punto lucreziano in cui non c’è nulla eppure, in esso, c’è il tutto. Al punto di partenza insomma inteso come destinazione finale oltre la quale non c’è che il vuoto privo di senso.
E qui allora che Vicidomini sembra incarnarsi in figure che nascono dalla follia e dal sangue barbarico di un McBeth o di un Enrico IV: proprio perché il disvelamento può essere operato drammaturgicamente solo dalla pazzia più estrema. L’esilarante olimpiade dei tic nervosi o le telefonate al numero verde della follia sono i sintomi di un male estremo, la vita, che ci costringe ad indossare maschere e personalità, identità che non ci appartengono. Così Vicidomini rende il suo capro espiatorio alla stregua di una vittima sociale che nasconde se stesso a se stesso, che diventa altro da sé per gli altri mentre il Fauno batte i piedi e continua a ricordargli che la vita è una corsa verso il dolore e il nulla: non si faccia troppo illusioni lui, l’Uomo. Meglio quindi imbrogliare i fili del destino, barare con le carte, fingere di essere pazzo… o esserlo al fine per davvero così da ridere e godere del proprio male e delle proprie miserie e sofferenze.
Uno spettacolo da non perdere, da studiare, da rileggere alla luce di un paio di testi, come ad esempio Le origini della tragedia e del tragico di Untersteiner.
Enrico Bernard