Roma, Teatro Golden, fino al 15 dicembre 2019
E’ un Donchisciotte postmoderno quello in scena al Teatro Golden, un ultimo disperato, spiazzante, bizzarro, come giusto che sia e come letteratura insegna, tentativo di arginare i mostruosi mulini a vento contemporanei, incarnato da un eccezionale Alessandro Benvenuti. Autoconfinatosi in un garage e supportato, ma meglio sarebbe dire sopportato amorevolmente dal figlio, novello Sancho Panza, un bravissimo Stefano Fresi, Don combatte la sua battaglia con i mezzi a disposizione, quelli che offre il web, tragica illusione di libertà, a suon di messaggi poetici, disperatamente positivi, contro il vuoto cosmico, l’appiattimento emotivo che ci sta inghiottendo (o già lo ha fatto, forse), il grande buco nero, le fauci di un sistema che ci inganna con un finto benessere e bombardandoci di messaggi comportamentali lontani dalla nostra vera essenza, che non riconosciamo più. Zombies vuoti di sentimento, manovrati dal potere, politico o economico che sia. Di contro, il fido scudiero Sancho, suo figlio nella realtà, altrettanto disperatamente oppone ai pensieri di Don la sua visione della vita, più pragmatica ma non meno accorata. Tra teorie complottiste e concetti che affondano il ragionamento nella fisica quantistica, come nel capolavoro di Cervantes è l’amore per la vita e il bello la luce che può salvare il mondo, il vero atto di coraggio. Pur nell’inevitabile corsa verso il delirio di Don, rimane quella l’unica speranza, l’autentico atto sovversivo da compiere. Anche senza una Dulcinea, anche se questa appare solo in video chat ed è tutt’altro da quel che sembra.
Un testo particolare quello di Nunzio Caponio, autore di Donchsci@tte, con l’adattamento e regia di Davide Iodice, che si ispira all’opera di Cervantes per un tragicomico affresco contemporaneo. Non crediate di assistere ad una commedia frivola, questo Donchisci@tte è un grido di dolore per un labirinto esistenziale da cui è difficile affrancarsi. Lo spettacolo spiazza decisamente, divide il pubblico, investito da un forse eccessivo utilizzo di terminologia scientifica, per cui è necessaria un’attenzione che non tutti sono disposti a concedere. Ma i due interpreti sono perfetti nei rispettivi ruoli, eccellenti nel rappresentare un’umanità smarrita, dolente, probabilmente perdente ma di estrema dolcezza. “Giuro di essere costantemente innamorato” è l’ultima frontiera della speranza. Da vedere, con attenzione.
Paolo Leone