La dimensione del desiderio (Tre esempi del cinema di Kubrick). Di Massimo Triolo

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Per questo nostro viaggio attraverso tre paradigmi della filmografia di Stanley Kubrick, abbiamo scelto di principiare in maniera diacronica, ovvero dal suo ultimo lavoro: “Eyes Wide Shut” (1999), per poi passare, nell’ordine, alla disamina di “Arancia Meccanica” (1971) e a quella di “Lolita” (1962).

“Occhi ben chiusi” recita il titolo del film-testamento del regista: trasformando in paradossale l’espressione inglese “Eyes wide open” (Occhi ben aperti). Un film, questo, che procede con rigore formale e freddezza autoptica, quasi extra-corporea proprio nel gesto di filmare soprattutto i corpi – denudati nel sogno, ovvero privati di ciò che vestono necessariamente come adattati e integrati, per vagare nudi col fardello di una colpa quasi adamitica di infrazione della Legge entro il giardino incantato della morale borghese; così come nella realtà, nella quale svestirsi e rivestirsi nella prigionia del proprio ruolo: il termine inglese “habit” sta sia per costume morale che per abito da indossare –, un film che assurge, su questa stessa via, a parabola morale sul rapporto intrinseco tra sesso e potere, e sembra dichiarare a chiare lettere che il desiderio, in ogni sua espressione designa uno spazio che è politico, se politica può dirsi la sfera del rapporto con l’Altro nella sua espressione di limite e territorio delle identità. Non a caso di identità si tratta quando la carne, questo atavico perturbante che si afferma attraverso il desiderio e nega attraverso il senso di colpa, senza soluzione di continuità tra la dimensione libidica – ludica diremmo, come annuncia il finale significativamente ambientato nel più grande negozio di giocattoli di New York – e il divieto imposto alla sua definitiva, agapica liberazione, non può che passare attraverso la maschera: quella del ruolo, come accennato, della collocazione sociale e di censo, e quella liberatoria che fatalmente finisce per non inscenare altro che il suo veridico rapporto con la morte come limite incombente: e all’orizzonte del progettare (Alice confessa al marito, che un incontro occasionale aveva rischiato di essere la tomba del suo legame matrimoniale, della sua responsabilità genitoriale e infine, ancora più eloquentemente, del suo futuro) e alla libido cui immangono zone oscure e altre rispetto al Principio del Piacere di freudiana memoria e affermatore della spinta alla vita. Paradigmatica è la mancata consumazione dell’atto animale di possesso spogliato dai dettami di un ipertrofico Super Io, che non si tramuta in un immediato contrappasso all’osare del protagonista (contrazione dell’Aids) solo per un soffio e sulla via di un destino che egli semplicemente incarna passivamente. Questo film è donna fin dall’inizio, ed è la donna che nel film “custodisce” una reale forma di consapevolezza presso il proprio cammino (proprio come quello che consegue l’Alice di Carroll di cui la moglie del protagonista, interpretata da una Nicole Kidman mai così istrionica, porta lo stesso nome); in modo autentico e tale da non negoziare la propria discrezionalità valoriale, operando cioè delle vere scelte di non contaminazione con un mondo che alletta con suasive libertà sfrenate, per poi violare puntualmente l’unica vera forma di libertà rimasta ai corpi per non essere solo carne ma anche anima… O coscienza illuministicamente intesa. La domanda che viene da porsi e se per Coscienza Kubrick intenda, alla maniera kantiana, una sorta di motore primo razionale e autarchicamente formulatore di a priori pratico-morali che non siano condizionati da elementi “sensuali” e contingenti, occasionali e tali da porre il prossimo, e in definitiva l’umano, come mezzo e non come fine ultimo, come oggetto e non come soggetto universalmente inteso. Vi sarebbero, in questo caso, le tracce di una morale evangelica che Schopenhauer imputa a Kant essere surrettizia e tale da generare un cortocircuito tra statuto teoretico-trascendentale assegnato all’ambito morale e contenuto empirico. Il regista sembra piuttosto orientato ad affermare che la realtà tutta è come il Velo di Maya schopenhaueriano, ovvero un sogno, un contenuto onirico e ingannevole, che può essere squarciato solo in ragione dell’urgenza del corpo come forma di cieca volontà di autoaffermazione, inconscia e irrazionale, apportatrice di danno e dolore proprio nel gesto di affermare sé. Approfondiremo presto il discorso concernente carne e corpo; ma torniamo adesso al protagonista Cruise (Bill Hartford nel film), medico e upperclassman integrato e ben inserito: egli appare invece una maschera incapace di cambiare maschera, trasportato in un mondo ipnagogico e allucinato sul quale non ha e non vuole avere un vero controllo, esattamente come capita in un incubo in cui si è chiamati a fuggire il pericolo ma ci si trovi immobilizzati e incapaci di evitarlo correndone via.  La curiosità di Bill diventa “Hybris” quando il personaggio anodino e borghesemente frustrato che interpreta, varca il cancello che introduce alla dimensione orgiastica e satanicamente manipolatoria dei corpi – raffigurata in sterili atti di copula meccanica con raffreddata minuzia e crudezza – e delle vite appunto destinate al proprio ruolo senza alcun appello: qui si hanno niente altro che carnefici che abitano il loro spazio oltremorale e vittime da esso possedute e designate tali. Il potere si maschera, niente di nuovo, per poter essere se stesso fino all’insulto di quanto vi è di umano (la carne come confine inviolabile e la sovranità sul proprio corpo) ogni forma di umano reificando a oggetto di un atto di dominio che disvela la sua dimensione sadica fino alla rarefazione di ogni legge morale; avvalendosi del rito per perpetrare la liturgia del possesso senza altra ragione a sé che non l’uso – ossessione tipica dell’orizzonte capitalistico – e la profanazione del corpo-vittima. In questo film le vere vittime agnine sono infatti proprio i corpi, con ciò che subiscono, assieme all’orizzonte della scelta, ciò che li potrebbe onorare e riscattare dalla legge del mero usa-e-getta che li tiene in scacco: gli occhi sono ben chiusi e tali devono restare, perché il potere, quello vero, tiene nell’ombra le fila di un destino doppiamente castrato: cioè psicanaliticamente coincidente con un inconscio non liberato, né liberabile se non in segreto (maschera qui non significa altro, per Bill, che calco di un desiderio non transustanziato, ancora eterodiretto e irrigidito in “cattiva maschera”: egli è passivo o reattivo, non vitale e liberamente creativo di sé e del proprio destino e senso nel mondo, tale cioè da poter liberare un mutamento incessante che incessantemente veste maschere realizzando una nietzschiana coincidenza tra essenza e esistenza: si nasconde dietro la maschera invece che interpretarla in modo dionisiaco); una liberazione negata attraverso un’esistenza soggetta alla consunzione della libido fino al suo ripetersi entro l’ineludibile schema del ruolo sociale e relazionale che è vettore di una grandezza virtuale, ovvero solo di variabile intensità e non di cambiata natura o sostanza (specchio).

Quello del gesto registico di Kubrik è un rasoio di Ockham presso la definitiva questione del rapporto tra una società repressiva in cui dover celare la forza annichilente del desiderio, costringendola in rituali consentiti e consolidati dal rapporto di classe, e la cooptazione di esso tra gli stratagemmi più riusciti per la conservazione che il Potere perpetra di se stesso facendone esca. Il cammino del protagonista maschile, come in una fiaba antica, è disseminato di divieti che egli puntualmente infrange, ma se nelle fiabe il discorso morale si presenta attraverso il divieto quale postulato assoluto, e la sua infrazione quale generatrice di un necessario contrappasso, qui il discorso si fa illuministicamente un teorema perfetto e empiricamente fondato sulla natura narcisistica e sterile propria di un Sistema elitario e manipolatore e del suo scempio sistematico, alieno a ogni forma di empatia, che compie per ripetere se stesso, presso tutto ciò che non sia l’arroganza di un arbitrio inflittivo che rasenta l’astratto; e tutto questo facendo leva sulla fragilità dei corpi e del sentimento e trasformandoli in altrettante leve di ricatto. Si è detto ingiustamente del film, essere un frigido esercizio formale e estetico, ma l’obiettivo di Kubrick, più verosimilmente, era proprio quello di dissolvere ogni pathos nella forma di una raggelante cronaca che elude ogni possibilità di immedesimazione dello spettatore in quelli che rimangono dei fatti, privandolo del ruolo classico a cui è consegnato: ovvero parteggiare per qualcuno o qualcosa. Le scelte cromatiche stesse, si presentano come un’esatta geometria del blu, dell’arancio e del rosso. Dove il blu è il gelo del sentimento, la deriva della fedeltà e della concordia, l’arancio l’ultima scialuppa di domestici tepori che sono però sistematicamente traditi e dei quali la ripetuta comparsa dichiara già la natura frammentata, eteronoma e artificiale; il rosso, infine, è la sessualità sfrenata nel suo hic et nunc senza la durée di tracce morali.

Se la parola di ingresso alle orgiastiche stanze del Potere è “Fidelio” – proprio come il titolo dell’Opera di Beethoven, in cui è la donna camuffata da uomo che salva il proprio amato liberandolo dalle catene – e Bill sembra consegnare a pegno del suo ingresso l’amore e la fedeltà coniugale, assieme alla testimonianza stessa del perseverare della donna nel farsi custode della vita come valore sacro, la parola segreta per uscirne indenne rimane inespressa, anzi semplicemente non esiste, e questo perché il viaggio verso la compromissione di una volontà liberata dal ricatto è un biglietto di sola andata verso una fine tragicamente fatale, una scelta irreversibile per Bill –che è intruso entro il cerchio degli iniziati e in uno statuto di non-esistenza o di non-ruolo: fuori dalla propria rassicurante cellula-famiglia e alle soglie di un altro legame di sangue di cui ignora le spietate regole –, irreversibile se non per mezzo di un sacrificio, anch’esso di sangue, il cui nome è ancora “donna”. Ed è ancora una donna che sceglie in luogo del protagonista maschile – nuovamente passivo, infantile spettatore delle proprie inconsapevoli e corrive scelte –, e sceglie il sacrificio di sé per la sua salvezza. Una vita per una vita, nel linguaggio massonico dei cui simboli, anche esoterici, è punteggiato il film. Finale di pellicola affidato allo spiccio “Let’s fuck” di Alice: più edonistico che eudemonistico. L’atto sessuale allontana il fantasma lacaniano?

Nel prendere in esame “Arancia meccanica”, che ci proietta invece nel lontano 1971, occorrerà forse fare un passo indietro fino a “2001 Odissea nello Spazio”. L’incipit è assertivo di una verità difficilmente dubitabile: la civiltà, anche quella più avanzata, è figlia dell’assassinio. Mentre si sentono le note dello Zarathustra di Strauss – richiamo piuttosto palmare a un orizzonte superomistico, o potremmo dire premorale, in cui non esistono mediazioni di pensiero apollinee, e la violenza non è ancora istituzionalizzata, resa seriale e giustificata da un Ethos sociale e politico, ma individuale e prototipica: ad una azione violenta v’è la risposta diretta di un’azione uguale e contraria se non soverchia –, un primate fa di un osso un primo, inedito utensile, non un utensile qualsiasi, ma un’arma con la quale difendere un proprio primato sui suoi simili e uccidere se necessario. Il primate lancia l’osso in aria, che roteando, passa il testimone (visivo) a una navicella spaziale. Niente di più chiaro e esplicito, dopo l’esperienza della Shoah. Azzardando un passo in avanti che ci porta al finale di pellicola di “Arancia Meccanica”, esaminiamo la scena magistrale in cui un alto funzionario politico imbocca letteralmente il protagonista Alex come fosse un bambino da vezzeggiare, al capezzale del suo letto ospedaliero, che è un altro esplicito messaggio kubrickiano: il potere ha cooptato la violenza di Alex, è divenuto il suo migliore avvocato: qui assistiamo ad un altro passaggio di testimone che è l’avvicendarsi di una compagine politica più sottilmente suasiva e pericolosa – che applica una neo-machiavellica morale dell’utile immediato al solo guscio morale estrinseco della questione “libero arbitrio”, speciosamente invocata perché leva perfetta del Potere nuovo – alla vecchia compagine resasi obsoleta, ovvero colpevole presso Alex di averlo “addomesticato” col vulnus  di sottrargli ogni facoltà di libera scelta; egli è divenuto, da carnefice che era, la vittima ideale, un caso sociale paradigmatico da prima pagina di giornale, e la politica del nuovo Governo trae profitto dalla sua vicenda stipulando con lui un subornante, luciferino patto di lunga amicizia. Tornato ad essere un delinquente comune dopo la cessazione degli effetti della cura Ludovico, il protagonista ritrova il proprio posto nella società e una collocazione addirittura privilegiata perché avallata in tutto da un sistema più scaltro e scafato di lui nella perpetrazione della violenza, ma a differenza di lui, tale da giustificarla con la necessità di una Ragione di Stato, compiendo una sorta di gioco delle tre carte in cui la sola vincente è quella del Bene Comune. Non è il solo episodio del film in cui Kubrick va dritto alla questione politica dell’uso della violenza: ai compagni di Alex, egualmente violenti e privi di veli morali, è offerta la possibilità di fatto di usare la stessa violenza, se non peggiore, vestendo la divisa di poliziotti. Potrebbe essere rivelatrice della notevole traccia critica del regista, consultare alcuni passaggi di “Sorvegliare e punire” di Foucault… Assistiamo a una futuribile società malata di controllo esattamente come quella odierna o coeva del film. Diremo di più, gli affreschi presenti nella sala di ingresso della palazzina in cui abita Alex, sono agiograficamente improntati ad una esaltazione del lavoro e simili in tutto all’arte/pubblicistica del comunismo sovietico. Perché? Perché Kubrick, illuministicamente laico e di sinistra, mette in scena il degrado contestualizzandolo in un contesto politico con ascendenza di sinistra? Diremo soltanto che si addice a una chiave politica di questo tipo, la stessa cura Ludovico: un indirizzo detentivo volto alla riabilitazione – fosse anche tale da essere coattiva – piuttosto che a una detenzione punitiva. La figura dell’assistente sociale di Alex, figura grottesca e tale da indentificarsi col proprio ruolo senza correlare i mezzi ai fini, esattamente come un individuo della larga schiera di “uomini seri” nelle analisi della De Beauvoir –, quella stessa figura si inquadra perfettamente in un tipo di Governo garantista e progressista.

L’occhio riveste un ruolo centrale in tutto il cinema kubrickiano, e qui più che altrove, quello che fu un avanzamento evolutivo capace di anticipare il pericolo, diventa il pericolo stesso. Gli occhi forzosamente spalancati di Alex durante il pavloviano trattamento Ludovico sono la metafora più evidente che occhio e testimonianza, vista e cattiva coscienza, non sono necessariamente binomio né catarsi; così come, simmetricamente, la cultura più raffinata non emancipa affatto dal lato animalesco, belluino, criminale. Alex è un criminale a suo modo forbito e tale da unire un’intelligenza viva a una totale assenza di freni morali. Presumibilmente, v’erano tedeschi fedeli al regime nazista e perpetratori di uno sterminio serial-scientifico, che ascoltavano Mahler e Beethoven – proprio come sembra testimoniare chiaramente Steinbeck nel finale de “La luna è tramontata” … Nel libro il Generale delle forze di occupazione richiamanti esplicitamente Fascismo e Nazionalsocialismo, conosce a memoria il passo dell’Apologia di Socrate che il ribelle condannato a morte e il suo amico dottore, non riescono a rammemorare nonostante il desiderio di ricordarlo assieme come testimonianza della paradigmatica scelta di stoica libertà che esso incarna.

Esattamente così come lo spettatore è portato a provare empatia nei confronti di Alex che in tutta la prima parte del film commette gli atti più spintamente violenti e amorali, paradossalmente l’uomo medio prova una sorta di compiacimento e sciacallesca ebbrezza nel leggere e vedere i peggiori casi di cronaca nera: essi diventano leccumi per la bulimica fame di altrui disgrazie e fatti di sangue di cui parlare al bar, in qualche piazza o cortile; sempre più assecondati da media complici di “mostrare a ogni costo”: con dovizia di dettagli e l’accompagnamento di commenti falsamente pietisti; e nessuno degli spettatori mancherà di essere felice di non essere lui la vittima. Testimoniare, proprio visivamente, delle violenze e degli atti criminosi e aberranti delle guerre e degli olocausti della postmodernità, è una vera ossessione che sembra però non portare a scrupoli presso il muovere guerre giustificate a scopi morali… L’esempio dell’asse americano contro il cosiddetto “asse del male” è la più spinta e recente forma di giustificazione, addirittura preventiva, dei crimini di guerra. I soldati, aizzati e pompati da martellanti musiche techno a compiere azioni di guerra spesso riprovevoli e fuori dall’orizzonte dei loro stessi scrupoli morali, fanno il paio con Alex che s’infoia all’ascolto di Beethoven e ne trae ispirazione per compiere i peggiori delitti. Alex e il Potere con la “p” maiuscola sono amici da sempre. Basta solo essere “dalla parte giusta”.

Fa specie che una voce insigne e colta come quella di Eco, associasse la pellicola, dopo la sua uscita nelle sale, a una sorta di estetizzante giustificazione della violenza “sociale”, accostandola grossolanamente alla saga dell’ispettore Callaghan e bollandola come reazionaria. Ci limiteremo a concludere che se il cinema di Kubrick ferisce lo sguardo con una sfacciata messa in scena della violenza più turpe e scoperta – la scena in cui il tentativo di stupro è inserito nella cornice di un palcoscenico da teatro barocco è il picco di questa rappresentazione che sfiora l’astratto –, l’occhio è ben aperto anche e soprattutto sulla criminosa responsabilità politica che fa di Alex un giocattolo per le proprie mani guantate di bianco: prima un giocattolo a carica non volto al bene ma incapace di fare il male, poi un giocattolo a carica per un male su cui il Potere può chiudere un occhio se non tutti e due –destino che non condivide con lo spettatore del film. Significativo, a questo proposito, un passo di una famosa lirica pasoliniana da “La religione del mio tempo”: “…peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare”.

Per l’analisi della terza pellicola, la prima in ordine non diacronico, ci piace cominciare dalla citazione dell’incipit del libro da cui è tratta: “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.

Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.” (Da Vladimir Nabokov, “Lolita”, 1955).

Lolita è la migliore delle trasposizioni possibili a inizio decennio dei ruggenti ma moralistici Sixsties, del romanzo scandalo di Nabokov dal titolo omonimo. Nell’America puritana del tempo la rappresentazione in senso materialmente scenico del peccaminoso contesto del libro dettava leggi piuttosto strette e vincolanti: non era certo quella più veridica e coraggiosa del Vecchio Continente, in cui le pulsioni sessuali e un certo grado di perversità venivano rappresentati senza troppi orpelli morali e in modo più concreto e privo di dispositivi diegetici di tipo ellittico… Si guardi a Buñuel, per esempio, che li rappresentava come evidenti segni di corruzione e degrado, appena sotto il sottile strato di vernice della pruderie e del decoro, tutto accessorio ed estrinseco, formale, dei soggetti borghesi più inseriti e socialmente privilegiati… quasi alla maniera delle orgiastiche tele di denuncia sociale del pittore tedesco Grosz.

Ma questa è una vicenda diversa, e urge solo un’unica forma di analogia con quel cinema: il tema della doppiezza.

Il film esce nelle sale nel 1962, a distanza di sette anni dalla pubblicazione del libro di Nabokov. Al centro della storia un Topos della letteratura e della poetica fin dai tempi più antichi, ovvero il desiderio carnale di un individuo adulto che ha per oggetto un giovane o una giovane pubescente: siano i giovani allievi di socratica memoria, il Lovely Boy shakespeariano, le sensuose e peccaminose ninfe, di sguardo ancora bambino, in Baudelaire e D’Annunzio; o la diafana, spettrale, esangue bellezza della sposa bambina (Virginia Clemm) di Edgar Allan Poe. Non a caso, sia nel romanzo che nel film, Poe stesso compare nella lezioncina spiccia di prosodia che Humbert improvvisa a una svogliata ma acuta Lolita, appellandolo come “il divino Poe”.

Un affiatato cast di attori di prima scelta: su tutti troneggia l’interpretazione da trasformista scafato di Sellers, con un inglese da scioglilingua incalzante e sardonico, sarcasticamente sulfureo e tutto sopra le righe. James Mason (Humbert Humbert) invece ha dalla sua una gamma di artifici recitativi improntati a un robusto naturalismo e a uno spessore tanto più profondo in ragione delle sottili sfumature che assume il suo scomodo ruolo attraverso il desiderio urgente e inconfessabile, lo sgomento, la paranoia, il senso di scacco esistenziale, che adulterano e esulcerano progressivamente la compostezza del suo ruolo da intellettuale “vecchia maniera” e tutto d’un pezzo, che incarna socialmente e cozza in modo tanto palmare con il suo machiavellico, torbido progetto di plagio nei confronti dell’adolescente coprotagonista: mai così capziosa e sfuggente, speciosamente e velatamente complice delle di lui fantasie quel tanto che basta a inverare invece un inganno che rasenta il complotto contro l’insospettabile professore. Ora, Humbert, con i suoi pruriti sensuali rappresenta l’eteroclito che entra in scena, fin dalle prime battute del film, in una comunità di provincia dove regna la regola di una sana e buona condotta e anche quando si trasgredisce lo si fa in modo mediocre e popolanamente pacchiano; valga l’esempio della madre di Lolita: la “vacca” in calore che incalza un James Mason imbarazzato e fuori posto, anche e soprattutto fisicamente, incapace di contenere i di lei calori, e a disagio persino nelle posture del proprio corpo irrigidito presso la trasmodante presenza di lei che si dimena, aderisce alla sua con invadenza, incalza con gridolini e svenevolezze cinguettanti, leziose, finendo con l’essere la caricatura di una massaia frustrata di provincia con velleità mondane (si veda il ridicolo club pseudoletterario di cui va fiera ed è la faccia più realistica e grossolana assieme del suo provincialismo). La vedova Haze, madre della fresca e virginale “ninfetta” Lolita, non può sedurre perché volgare, bolsa e sfiorita, a suo modo colpevole e vittima della propria velleitaria brama – incarnata con anacronistiche arie da giovinetta – di esiti “esotici” a appetiti e fantasie che hanno per oggetto proprio colui che la disprezza in segreto (fatalità o contrappasso?). Ecco, proprio dal romanzo, la cruda definizione che Humbert ne dà nel proprio diario segreto, che la Haze fatalmente scopre e legge: “La Haze grande, la strega, la vecchia arpia, l’invadente mammà, la vecchia, la stupida Haze…”

Magistrale la cruda presa di consapevolezza del proprio ruolo di vittima e pretesto per le reali fantasie erotiche di Humbert verso la figlia, con tanto di ceneri funebri dell’austero e integro marito estinto – introdotto all’attenzione di Humbert, con patetica vena agiografica, già durante la sua prima ricognizione in casa Haze –, le quali finiscono per essere una sorta di confessionale del di lei “peccato originale”: peccato di vanità e geniale quanto grottesco spunto letterario e filmico. Da notare che a entrare in scena assieme a questi elementi, c’è una venatura di permissivismo progressista nella condotta dei genitori di quella sonnolenta comunità, che assecondano piuttosto che censurarli, i primi flirt dei propri figli, con un atteggiamento quasi amicale verso di essi, piuttosto che autoritario e interventista, il quale sembra più di ogni altra cosa una caricatura da teatro di posa morale di stampo piccoloborghese.

Il torbido desiderio di Humbert trova invece un contraltare nelle comparse proteiformi di Sellers (Quilty) che inscena prima il ruolo di poliziotto e poi quello, più improbabile, di uno psicanalista freudiano il cui accento spiccatamente teutonico rasenta il luogo comune. Questi due ruoli corrispondono a un duplice volto dell’autorità e delle istituzioni che alimentano nel protagonista uno stato paranoide tutto in crescendo; sono scopertamente fittizi, posticci, ma bastano a destabilizzare i programmi peccaminosi di Humbert, quasi che il personaggio, consapevole del proprio vulnus al cuore della legge morale, trovasse in essi il contrappasso, appunto istituzionale, alla propria cattiva coscienza e dei sensi di colpa che ne sono corollario.

Significativamente è chi non subisce la prigionia di un ruolo stringente ma veste tutte le maschere, a ingannare Humbert sottraendogli Lolita con una astuta macchinazione. Se Humbert fa ricorso all’inganno e all’infingimento attraverso una spola tra due diversi ruoli tra loro inconciliabili se non nascostamente e attraverso l’alternanza manifesto/non-manifesto – e quando v’è l’uno l’altro non sussiste o è in eclissi –, Quilty è libero di incarnare qualsiasi maschera, e non è talvolta l’una e talvolta l’altra, ma, similmente all’antica dea metamorfica Teti, uguale a se stesso in  ogni diverso ruolo in cui si manifesti la sua plurimorfa identità: egli è se stesso e al contempo sempre qualcosa di eccedente un ruolo definito; inoltre, proprio come un giullare, non solo si trova a più agio nel manifestarsi sempre altro da sé senza smarrirsi – a differenza di Humbert che in confronto è un principiante che dissemina indizi continui sulla vera natura del suo amore pedofilo e finisce schiavo del sospetto –, ma non ha scrupoli morali, nemmeno residui, e suggerisce velatamente, insinua in modo ficcante, la verità di cui Humbert non teme la sostanza ma piuttosto la visibilità presso eventuali testimoni: la sua evidenza messa a nudo. Per rendere un’idea veridica dello spirito impenitente e dell’avanguardia amorale che il personaggio Humbert incarna, facciamo ricorso a una citazione topica dal libro dell’autore russo: “Signore e signori della giuria, la maggioranza dei criminali sessuali che bramano un rapporto palpitante, dolce-gemente, fisico ma non necessariamente coitale con una fanciulla sono sconosciuti innocui, inadeguati, timidi e passivi, che chiedono alla comunità solo il permesso di preservare nel loro comportamento cosiddetto aberrante e concretamente inoffensivo – i loro piccoli, umidi, ardenti, privati atti di deviazione sessuale – senza che la polizia e la società tutta interferiscano troppo crudelmente su di loro. Noi non siamo dei depravati! Non violentiamo come fanno i bravi soldati. Siamo miti signori infelici, con occhi da cane, sufficientemente ben integrati da saper controllare i nostri impulsi in presenza degli adulti, ma pronti a dare anni e anni di vita per un’unica occasione di toccare una ninfetta.”

In altre parole l’unica colpa che Humbert riesce a sentire come tale è la possibilità, sempre aperta come una ferita, della presenza di testimoni alle sue nascoste perversioni: ovvero di un soggetto generalissimo che può prendere inaspettatamente qualsiasi forma e aspetto: egli esercita un potere tiranno e accentratore su Lolita, ma come tutti i potenti nell’analisi di Elias Canetti, egli è potenzialmente un perfetto soggetto paranoico. Quilty materializza le sue paranoie come l’individuo più adatto a farlo: un chiunque che può divenire chiunque.

L’andamento circolare del film suggerisce a pieno la rivalità tra chi si improvvisa attore mal celando la propria colpa e chi fa l’attore per mestiere sia nell’arte che nella vita, fino allo stemperare dell’una nell’altra; quando Humbert spara a Quilty uccidendolo, il proiettile attraversa significativamente un quadro, un ritratto, un’immagine – un’altra forma di finzione/rappresentazione – della quale il proteiforme Quilty si fa istintivamente scudo come a nascondervisi dietro per cercare un estremo, inutile riparo da niente altro che il suo fissaggio, finalmente, nel ruolo specifico di corruttore di Lolita e avversario di Humbert, ovvero oggetto della sua vendetta e niente altro.

Vogliamo concludere precisando che sarebbe stato un compito ingrato rendere merito, in un breve saggio, di tutte le pellicole di questo geniale e rigoroso regista, e abbiamo scelto quindi tre soli paradigmi del suo cinema, che crediamo di grande rilevanza e, seppure eterogenei tra loro, accomunati dal concetto di una dimensione politica del “desiderio” e da precisi indizi di carattere antropologico, psicanalitico e sociale, i quali crediamo abbiano conferito a questa nostra analisi un suo preciso filo rosso.

Massimo Triolo

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