La lettura è solo per gli abbonati al pacchetto Corriere Premium
È uscito il romanzo di Enrico Bernard GRETHA, LA NASCITA DELL’ANTICRISTA, primo volume della trilogia dell’Anticrista dell’Autore italo-svizzero. Ispirata alla figura di Greta Thunberg l’opera di Bernard è un grande affresco comico, tragico e filosofico della vicenda umana di una ragazzina uscita dalle viscere della terra durante il terremoto in Umbria e che viene adottata da un due religiosi, un benedettino e un francescano, da un professore in pensione di filosofia, da una coppia di contadini e da uno stuolo di animali tra cui il simpatico e filosofico asino Eskilo. Pubblichiamo un brano esilarante dell’opera, la barzelletta di Fra’ Desiderio, il fratacchione avvinazzato e sempliciotto dotato però di uno straordinario spirito.
La Barzelletta di Fra’ Desiderio da
Gretha, la nascita dell’Anticrista
di Enrico Bernard
BeaT, pp. 560 – 19,00 Euro
https://www.amazon.it/Gretha-nascita-dellAnticrista-Enrico-Bernard/dp/B08SGVNPYL
A testimonianza nonché ulteriore, qualora se ne sentisse il bisogno, riprova del suo spirito arguto (se ben innaffiato ovviamente), dell’animo vivace, della favella loquace e della lingua pungente (se sciolta in un gargarismo di un buon rosso carico di tannini e ben fruttato) ci sono le innumerevoli storielle e barzellette, alcune piuttosto piccanti se non proprio sconce, di cui si raccontava maliziosamente fosse autore Fra’ Desiderio.
Qualche esempio va pur fatto. Fra le numerose storielle imparate a memoria e interpretate come un attore provetto, ve ne era una di cui si piccava di attribuire la paternità nientepopodimeno che ad Umberto Eco, il semiologo e romanziere di successo. Probabilmente la barzelletta, considerato il contenuto semiologico, cioè basato sulla teoria dei segni nonché l’ambientazione ecclesiastica, si poteva tranquillamente attribuire all’autore de Il nome della rosa. Diamogliela per buona, dunque…
…dunque, cominciava sempre così il racconto di Fra’ Desiderio, c’era una volta una vigna contesa da due conventi confinanti. Su una spoglia collina, poco più di un montarozzo addossato ad costone roccioso v’era il convento dell’ordine dei Poverelli, i francescani. Posto sulla ridente e fertile collina opposta, circondato da campi di grano, frutteti e uliveti elevava le sue guglie alla gloria del cielo – nel raccontare storielle Desiderio era solito calcare un po’ troppo la mano per ottenere l’effetto sorpresa e strappare un sorriso – una scuola religiosa della ricca Compagnia di Gesù. Spesso i monaci novizi francescani e gli scaltri gesuiti, soprattutto in occasione della vendemmia, venivano a parole e talvolta anche a vie di fatto poiché i filari d’uva dai succosi grappoli gravavano proprio sul confine dei territori dei due conventi. L’animosità, oltre che dalla produzione vinicola cui si ambiva non solo per le funzioni ma anche per qualche gozzoviglia, era ovviamente alimentata come un fuoco sotto le ceneri dalla notoria rivalità tra gli ascetici ma presuntuosi ed irritanti preti che si credono sapientoni infallibili e depositari di ogni umano sapere e i monaci con sandali laceri e piedi puzzolenti, ingenui e bonari, semplici e in pace con tutto e con tutti tranne che quando vedono davanti a loro il bicchiere mezzo vuoto perché qualcuno se lo tracanna al loro posto. All’ennesima zuffa piuttosto violenta, in seguito alla quale furono necessari diversi punti di sutura su un paio di zucche, il Padre superiore francescano propose al corrispondente Priore gesuita in quale modo fosse possibile risolvere la grave questione che gettava un’ombra agli occhi del mondo sulla serietà e spirito di fratellanza tra correligionari.
– Siamo tutti uomini di chiesa, non è possibile venire ogni volta alle mani per qualche grappolo d’uva.
Il Priore comprese naturalmente la necessità di dirimere la faccenda una volta per tutte ed indicò la soluzione nella disputa teologica: che i francescani nominassero il loro campione in teologia, i gesuiti ne avrebbero prescelto uno fra loro da contrapporre. E al vincitore spettasse ogni diritto sui frutti della vigna.
Il francescano, poveretto, strabuzzò gli occhi: noi siamo definiti Frati Minori, voi della Compagnia di Gesù siete invece considerati fin dai tempi del vostro fondatore Ignazio di Loyola come depositari di ogni sapienza ecclesiastica, la disputa teologica tra noi sarebbe impari.
– Ebbene – sentenziò il Priore arrotolandosi maliziosamente il pizzetto tra l’indice e il pollice – voi siete detti appunto Frati Minori ma non certo minorati. Sarete pure in grado di assolvere ad una disputa teologica. La quale d’altronde è l’unico sistema di soluzione delle nostre beghe.
Al Superiore francescano non rimase che deglutire il boccone amaro e prepararsi alla sonora disfatta. Ma non vedeva via di scampo.
Arrivò il giorno solenne della disputa. La quale ebbe luogo in territorio neutro, un salone della Rocca Albornoz, sede del Museo Nazionale del Ducato di Spoleto. I due ordini si fronteggiavano guardandosi in cagnesco come opposte tifoserie di calcio venute inopinatamente a contatto. Al centro della scena, ovvero del campo di battaglia teologale, un lungo tavolo ai lati del quale sono assisi i due Priori, in silenzio ovviamente religioso come confacente al loro abito talare. L’ingresso del magister gesuita, un teologo alto e pallido in abito scuro come la notte su cui campeggiava al collo il risvolto bianco del colletto, il mento e il naso aguzzi come uno spaccacapelli in quattro, fu accolto da un breve e stitico applauso, tanto i gesuiti erano certi del trionfo del loro portabandiera, non c’era nemmeno bisogno di fare il tifo. Il loro portabandiera, un certo Padre Kohler, era sicuramente in grado di stracciare anche Aristotele, figuriamoci un lurido fratacchione. L’uomo dallo sguardo penetrante come una lucertola a caccia di formiche si guardò beffardamente intorno cercando nella folla degli scalcinati francescani il suo antagonista.
Gli sembrarono tutti uguali, luridi, grassi e beceri, per cui si sedette molto schifato a capotavola, estrasse dalla cartella di cuoio, ovviamente nera, un paio di occhialetti che si sistemò arricciando le labbra sulla gobba del naso. Il gesto altezzoso si tramutò immediatamente in un’espressione di disgusto allorché fra strilli e strepiti, fischietti e tamburelli, si presentò il campione dei francescani. Campione? Piuttosto un ridicolo panzone barbuto con tanto di sacco pieno di cibarie a tracolla, pareva un orso dai riccioli incolti e pulciosi simile ad un cespuglio di mirto. I confratelli lo avevano soprannominato Fra’ Tuck, in onore del panzone complice di Robin Hood, il principe dei ladri uscito dalla penna di Alexandre Dumas.
Il magister gesuita squadrò il rivale francescano come uno squalo punta un merluzzo. Ad onor del vero l’occhiataccia dell’istruito teologo che avrebbe incenerito all’istante uno scolaro discolo sul banco di scuola – non per niente costui era membro dell’ordine che dette vita alla Santa Inquisizione – provocarono nel competitor una scorreggia e un rutto all’unisono, entrambi forzatamente spinti per provocare il rivale, suoni gastrointestinali che fecero non certo inorridire, ma sicuramente tremare le statue.
Che schifo, pensò il gesuita.
Che scemo, mormorò Fra’ Tuck.
Sorvolando sull’offensivo labiale del frate e sull’espressione raccapricciata del rappresentante del clero depositario di ogni scienza e sapere, si dette inizio alla disputa teologica che, a giudizio di tutti i presenti, sarebbe stata di brevissima durata e dall’esito scontato.
In effetti atterrì l’intero uditorio la sicumera con cui Padre Kohler aprì il contenzioso estraendo una mela verde dall’elegante borsa di cuoio nero con gesti studiatamente lenti. La famosa mela verde dipinta da Matisse sarebbe marcita per la vergogna di fronte allo sgargiante smeraldo vivo del frutto proibito su cui si concentrò l’attenzione generale. Caspita! Sarebbe stato in grado, un semplicione come Fra’ Tuck, di replicare all’attacco sferratogli dalla Grigia Eminenza gesuitica, oppure avrebbe annaspato nel balbettio e nei rigurgiti inequivocabilmente attribuibili ai peccati di gola e alle pantagrueliche gozzoviglie? Invece sorprese non poco la presenza di spirito del frate che passò all’attacco tirando fuori dal sacco, come fosse una bomba, una fragrante pagnotta in risposta alla mela del gesuita. Pensando di aver azzeccata la mossa, aggiunse un gesto volgare ma significativo: tié, beccati questo! Fece quindi seguito uno scambio di messaggi in rapida successione sulla base di segni con le dita. Come se stessero assistendo ad una partita di tennis, le capocce dei composti prelati da una parte, dei caciaroni frati dall’altra, sembravano seguire, toc e tac, la traiettoria di un’immaginaria pallina che rimbalzava da un’invisibile racchetta all’altra senza dare l’impressione di voler finire in rete. Ma qualcuno finì davvero per caderci nella complicata rete teologica, anzi possiamo dire che ci finirono tutti e due dentro, insieme, ma solo uno dei due contendenti riuscì ad evitare la padella.
Il gesuita, con presunzione:
Fra’ Tuck, beffardo:
Il gesuita, illuso della vittoria imminente:
Fra’ Tuck, con aria trionfante:
Il gesuita si fece dapprima sempre più roseo come un fanciullo beccato con la mano nella bottega dei pantaloni, poi improvvisamente rosso in volto e, ormai completamente paonazzo, ammise, nello stupore generale, la vittoria del frate rivale. Il quale rimase a bocca aperta come un branzino che non capisce come ha fatto a saltar fuori dalla cesta del pescatore. Un miracolo!
Quello che parve un incredibile miracolo ai francescani significava un’ignominiosa e inaspettata disfatta, un fulmine a ciel sereno, per i confratelli della Compagnia di Gesù. Al mesto rientro in sede, il Priore convocò immediatamente il suo magister e docente in teologia, testé uscito sconfitto e scornacchiato dalla disputa, per fargli una solenne ramanzina e chiedergli comunque spiegazione del disastro.
– Caspita, abbiamo messo in campo il nostro miglior teologo e filosofo, una mente acuta, sopraffina, laureatasi a pieni voti e pure cum lauda alla Sorbona, dottoratasi persino a Jena, come la iena del pensiero che sei, con un curriculum di saggi e interventi da far rizzare i capelli a S. Agostino… e ti fai fregare – disse proprio così usando un’espressione piuttosto triviale con cui il Priore incattivito tradiva il suo nervosismo e disappunto – sì, tu proprio tu ti fai fregare da un lercio zoticone senz’arte né parte che non si lava i piedi e le ascelle neppure dopo un mese di lavoro nei campi! È inconcepibile, ammettilo!
– Sarà inconcepibile – ammise il teologo – tuttavia è successo, neppure io mi spiego come sia potuto accadere. Vede, Padre, io ho subito messo in campo la questione teologica centrale sottoponendo all’attenzione la mela, simbolo della cacciata dall’Eden. Volevo farlo cadere in contraddizione, il caciarone, sollecitandolo sul peccato originale, tema delicato per i francescani che abusano spesso e volentieri delle fin troppo generose e facili assoluzioni plenarie.
– Ebbene?
– Ebbene con mia gran sorpresa il lercio puzzapiedi non se lo fece ripetere due volte e fu rapido a replicare estraendo dal suo sacco sozzo e schifoso una pagnotta che contrappose alla mela, come a dire: se da una parte c’è il peccato originale, esso è lavato dal pane simbolo nell’ostia del sacrificio del Redentore.
– Furbacchione. E tu?
– Beh, io provai a cambiare argomento e gli feci segno con un dito che Dio è uno.
– Ben detto. E lui?
– Lui, Padre, sapeva bene la lezione perché mi fece segno con due dita che oltre al Signore nostro Dio c’è pure suo Figlio Gesù Cristo, che sempre sia lodato.
– Che Cristo sia sempre lodato. Quindi?
– Quindi mi illusi di averlo, mi consenta l’espressione ma quando ci vuole…
– ….ci vuole. Parla.
– Insomma, pensai di averlo fottuto. Qui ti volevo, capoccione! Così feci segno con tre dita che oltre al Signore e al Figlio, sempre sia lodato, c’è anche lo Spirito Santo.
– La tua risposta fu pertinente. È il principio della Trinità.
– Pertinente ma non esaustiva. Perché lui mi guardò con aria trionfante, strinse davanti a me le dita delle mani in segno di sintesi intendendo che la Trinità si fonde in un’unico Ente Supremo. Sono Tre ma Dio è Uno. A quel punto, che potevo dire di più ?
Il Padre sospirò, si strinse nelle spalle e, non riuscendo a spremersi oltre le meningi, fece segno al teologo di accomiatarsi per chiudersi nel riserbo e nel silenzio totale per smaltire il dolore della batosta.
In quel mentre dall’altra parte nel convento francescano si stava facendo baldoria, un fracasso senza limiti coi frati che danzavano come pesanti e sformate odalische con le tonache mal cucite sui tavolacci del refettorio su cui scorreva il vino a fiumi.
Tra un brindisi e l’altro il Superiore chiese al vincitore Fra’ Tuck come diamine avesse fatto a battere uno scienziato, un magistre, un dottore in teologia famoso e rispettato in tutto il mondo per le sue elucubrazioni sull’essenza di Dio.
- E che cacchio ne saccio io – rispose il frate già piuttosto alticcio nel suo dialetto scorbutico e ruzzante – chill’ ‘o geuita è tutto scemo. Prima me fa con un mela: guarda ccà che ce magnamm’ noi gesuiti che simm’ cchiù sagge e vuje. Io teneva appriess a mme la pagnotta che fa frate Gennaro a forno e j’agge ritt tié, strunz, guarda che magnaamm nuiealtre. Chill’ schiatta d’invidia, s’encazza e me fa: ué i’ te cieco n’uocchio. E iallora m’arraggio anch’io e faccio a isso: e io te ne cieco due. Non l’avessi mai detto, chill’ perda a capa e fa segno ccu e mmane: e io te ne cieco tre. E io: ma che cazzo stai a dì? E aggio vinto, boh!
GRETHA, LA NASCITA DELL’ANTICRISTA
di Enrico Bernard
BeaT, pp. 560 – 19,00 Euro
https://www.amazon.it/Gretha-nascita-dellAnticrista-Enrico-Bernard/dp/B08SGVNPYL