Ligio Zanini, Cun la prua al vento, Scheiwiller, Milano, 1993

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Su Ligio Zanini (Rovigno d’Istria, 1927-1993) molto ci sarebbe da scrivere, molto su cui soffermarci e per la figura emblematica di quel dramma istriano e giuliano-dalmata cui davvero solo negli ultimi anni, e con l’istituzione del 10 febbraio come giorno della memoria, nel nostro paese si è data la giusta attenzione e come autore, come il più valido poeta istriota di sempre in quella lingua romanza dell’Istria meridionale distinta dal dialetto istroveneto e d’uso oltre che da poco più di mille persone nella zona da poche migliaia di esuli dispersi nel nostro paese. Uomo libero che fino in fondo ha pagato la scelta di restare (tre anni di lavoro forzato a Goli Otok, l’isola calva), unisce nella coscienza politica e civile di una partecipazione democraticamente attiva alla vita sociale, lontana dunque come altrove già rivelato dalle violenze dittatoriali del fascismo e del titoismo, la radice e la direzione di una terra e di un mare che ha nel canto il medesimo richiamo ad una esistenza di grata incisione alla creaturale sacralità delle sue origini. A partire da questo il racconto (di cui oltre alla produzione poetica è bene ricordare il romanzo autobiografico Martin Muma, testimonianza altissima di un popolo nella lacerazione dell’esilio)anche in quest’ultimo testo edito pochi mesi prima della scomparsa, è nella concretezza e nella simbologia delle sue navigazioni tra mari interni e luminosità e perigliosità del mare largo, la metafora insieme drammatica e determinata come detto della vita stessa tra aspirazione, umanissima, bassa a quel Signore di tutti nella meraviglia di ogni credo e resistenze, urti, domini di Pastori, di falsi maestri nell’umiliazione della terra dei loro sicari ciechi. Violenze da Zanin riportate bene perché come detto conosciute appieno avendo pagato anche con una pratica del lavoro a singhiozzo, lui insegnante disperso per molto tempo tra mille mestieri, e poi con l’indifferenza se non con l’ostilità della semplice popolazione nella ricerca in lui comunque e sempre del dialogo (facendo parte anche dell’Unione degli scrittori croati fino all’abbandono per l’eccesso di nazionalismo degli altri esponenti).
Mario Rigoni Stern, grande vecchio di montagna, ci lasciò un indovinato ritratto al momento della scomparsa in quella definizione di “uomo dal volto incrostato di sale (..) in armonia con il tramonto sulla terra d’Istria” e dal parlare marinaresco, in quell’insieme di veneziano dalmato, chioggiotto- genovese e greco-latino. Perché come dallo stesso Franco Loi sottolineato in Zanini è l’unione del cielo e della terra nel mare dal basso a dominarne i tratti tra l’intensità di una luce raggiunta nella maternità dell’acqua e i crepuscoli, i nembi di una costa, di un entroterra che preme dall’interno con le sue rivendicazioni, le sue faide antiche, la Morlacca (sinonimo dal Levante di burrasca perché proveniente dall’entroterra slavo, o Morlacchia) riferimento continuo di pericolo e di morte. Uomo solo in quel destino e in quella vocazione all’aperta liturgia di là dagli spazi che lo avvicinano al gradese Biagio Marin con cui condivise un’amicizia fraterna, di cui ci resta un’opera di inseguita, ricostruita, traspirata nudità di creazione a partire dalla nominata oggettualità dei suoi elementi nell’incontro e nella rifondazione dell’uomo all’interno della stessa creazione dunque, riconosciuta, abbracciata, difesa in quel divenire d’appartenenza e di trascendenza che non fa distinzioni ma comprensioni fra gli uomini. Se conoscere è nominare, e nominare è conoscere, nel suo caso l’infinita registrazione di coste, di mari nei suoi termini anche di pesca, di venti, di pesci grandi e piccoli, di scogli e di luoghi, ha il significato anche del riportare l’uomo, ogni uomo nell’universalità della sua condizione, alla natalità d’origine che lo vuole elemento tra gli elementi, non materia dispersa, padrona di una vita che in realtà appartiene solo a se stessa. Questa è la “Morte Sagunda” (la “Morte Seconda” nel riferimento al poverello d’Assisi) cui Zanini richiama costantemente (e di cui Tito stesso, tra gli altri, dall’altare dei suoi soprusi e dei suoi assassini è chiamato a rispondere), nel riferimento al poverello d’Assisi, nella consapevolezza e nella direzione di una fede che non cessa dalla sua piccola battana l’inno di invocazione a quel Dio cantato in tutte le sue meraviglie (anche di tormento, di inquieta e maldestra a volte navigazione), nella consapevolezza di un fango che è del cammino, che è della prova forse in un “mondo cumandà da piate maréine”(in un “mondo comandato dalle meduse”).. Un Dio che però fin dove fatto a misura della nostra “Brama da Ben” (“Brama da Ben”), troppo innocente e troppa bella, non può che restare ritratto come bestia ferita, Fattore, Creatore che allora è da noi ad attendere la sua rivelata pienezza proprio in quella presa in carico di sé e degli altri, nell’offerta a dire la Sua somiglianza e dunque la Sua incarnazione.
La forza di questa poesia così nel documento storico in cui va a incidersi (numerosi i richiami anche agli albori di quelle violenze che poi segneranno per sempre negli anni novanta dello scorso secolo l’ex Jugoslavia) è nell’intensità di una lirica che nel canto dell’uomo nell’espressione libera del suo essere e passare nella sacralità del suo segno rammentando perché e motivi della sua presenza e reciproca custodia, tenta di rompere, o quanto meno di incrinare (nell’illusione forse) una Storia di separazioni e rivalse, di negazioni e identità rifiutate cui nell’appello (vedi anche la consegna ai nipoti nel finale) alle giovani generazioni è demandata. Insegnamento antico di contro che a lui viene dai padri, dal nonno anche in quel far sì che ogni uomo abbia pane, e sufficienza di vita in una bellezza d’insieme in cui bisogna fare attenzione se non si vuole spegnerne il sogno “come i fiori/ tremolanti sul mar liscio dell’alba// che attendono di venire uccisi/ dallo splendore del Sole” (“cume i fiuri/ch’i bagulà sul lissier del mitéin//e ch’i spieta da iessi massadi/dal ciaro del Sul”). Ed anche da tutti quei vecchi, quei compagni di mare e di scelte con cui ha condiviso sole e terre, condanne, vita dunque a cui va il saluto nel segno di una fecondità di piante nel dono di un respiro colorato di fiori al trasparire dei sagrati, e di acque alte “che con la fora del cielo/ creano fondali nuovi, per il branzino, /come per la nerita” (“ca cun la fuorsa del sil/li cria fundai nuvi,/perl branéin cume par la naréidula”). Nel sottolineare un uomo e una storia che dovrebbe ancora far molto riflettere a fronte delle miserie cui l’Uomo non cessa di sottoporsi, ci piace infine ricordare Zanini nella sua eredità insieme di poeta in quel testamento affidato al grébano, sasso dell’adriatico corroso dall’azione millenaria del mare, con cui avrebbe voluto esser seppellito ed in cui sono incisi i simboli di tutte le fedi del mondo, non i distintivi dei regimi.

Gian Pietro Stefanoni

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