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“Pigiama per sei” di Marc Camoletti con Laura Curino, Antonio Cornacchione e Max Pisu al Festival di Verezzi / Recensione di “Fiori d’acciaio” di Harling

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Savona. Una nuova prima nazionale del cartellone del 55° Festival teatrale di Borgio Verezzi andrà in scena lunedì 2 e martedì 3 agosto: “Pigiama per sei” di Marc Camoletti, regia di Marco Rampoldi, con Laura Curino, Antonio Cornacchione, Rita Pelusio, Max Pisu, Roberta Petrozzi, Rufin Doh Zeyenouin (nella foto di Laila Pozzo); scene di Nicolas Bovay. Un titolo che viene presentato come “il tipico meccanismo perfetto” dove “ognuno è costretto a interpretare un ruolo diverso a seconda di quali siano le persone presenti nella stanza, in un crescendo turbinante di equivoci e risate”. Il più classico dei triangoli (lei, lui, l’altro) si trasformerà in un poligono complicato sotto i nostri occhi: nel mezzo equivoci, fraintendimenti e un mare di risate (inizio alle ore 21.30).
“Pigiama per sei” segue a ruota la pièce “Fiori d’acciaio” di Robert Harling, in piazzetta Sant’Agostino lo scorso 29 luglio, con Tosca D’Aquino, Rocío Muñoz Morales, Emanuela Muni, Emy Bergamo, Giulia Weber e Martina Difonte, diretti da Michela Andreozzi e Massimiliano Vado, che hanno ambientato la trama in un salone del Sorrento, sempre alla fine degli anni ’80.
D’Aquino è stata la genitrice che donerà il rene, Difonte la diabetica figlia Stella, Bergamo la pettinatrice titolare dell’attività, Muñoz Morales la neo assunta, Muni la donna litigiosa e Weber la vedova dell’ex sindaco.
Pensare a “Fiori d’acciaio”, per la sottoscritta significa ricordare “Speriamo che sia femmina” di Monicelli, una trama che si accanisce alquanto nei confronti dell’universo maschile. Anche nel testo di Harling le parti maschili non escono troppo bene: sia il marito che il padre di Stella usciranno dalla stanza d’ospedale, quando i dottori staccheranno la spina, perché “non se la sono sentita di rimanere”. Che gioia per la madre Marilù, invece, potersi vantare d’essere stata vicino a lei nei due momenti più importanti: quando è nata e quando ha detto addio alla vita. Una figura non oppressiva, che comunque ha tentato invano di consigliarla a non avere una gravidanza per la sua grave forma di diabete, ma che è euforica per il referto di compatibilità come donatrice di rene (e, nuovamente, veniamo a scoprire che il marito non fosse troppo d’accordo). E quanta rabbia paleserà D’Aquino di fronte al fatto ineluttabile! E che prontezza la reazione di Weber nei panni di Clara, che darà poi il via alla risata collettiva che seguirà il pianto!
Non una sbavatura: tutto scorre per un’ora e quaranta minuti, scanditi dall’atteggiamento di Bergamo che, quale Tamara-titolare del salone di bellezza, ha le redini in mano della rappresentazione: ora effervescente-curiosa-compiacente (con la regola d’oro che “la bellezza naturale non esiste”), ora triste-stanca-impotente.
Favolosa Muni nella parte di Luisa, napoletana verace (l’attrice è siciliana), sempre in rotta di collisione contro qualcuno o qualcosa. E, se l’ambientazione è campana, allora evviva Maradona e la sua squadra. A fare il tifo ci pensa Clara, a pregare invece Muñoz Morales nei panni di Ana (o, come le suggeriscono, “Anna”, che è meglio), che pare davvero risorgere, dopo una brutta storia d’amore con un uomo che la picchiava e e le ha portato via tutto. Dolcissima anche Difonte nella sua lotta al rosa-pesco (tonalità amata dalla madre) che, poi si scoprirà, non è vero che non le piace. Bello il momento in cui Stella ha le braccia scoperte e si evidenziano i cerotti per le dialisi a cui si sottopone da tempo, quando le amiche festeggiano la novità del bimbo in arrivo e si gelano alla precisazione di Marilù, e l’ingresso della madre nel salone dopo la morte della figlia: istanti in cui è di scena la solidarietà femminile, sottolineata dal silenzio e da espressioni glaciali. “Se ha bisogno di noi, ci troverà qui”, così avvisa le amiche la titolare Tamara.
“Fiori d’acciaio” è un titolo per donne che non si arrendono, che continuano ad amare e a sperare nel futuro; a questo non si sottrae neppure Luisa che, dopo due matrimoni, pensava di aver blindato il proprio cuore. Ciascuna sceglie in autonomia la propria strada, nel girone della vita; l’amicizia e la solidarietà scaldano il cuore e consentono di fare un passo dopo l’altro.
Suggestivo anche il finale, con un ritorno alla vita che continua, nonostante tutto, con un simultaneo svolazzare di asciugamani, mentre le luci di scena si spengono.
In apertura, premio Fondazione De Mari ad Alessandra Ferrara, quale miglior attrice “emergente” per il presidente Luciano Pasquale, “Best Supporting Actress” è la definizione preferita invece dal primo cittadino Renato Dacquino, riconoscimento assegnato ogni anno all’artista non protagonista che si sia particolarmente distinto l’anno precedente. E Ferrara era stata nel cast di “Parlami d’amore, Mariù”, sotto la regia di Francesco Bellomo, con Paolo Conticini e la stessa Muñoz Morales. Nella motivazione, si ricorda l’interpretazione di “Anita la partigiana e Claretta la fascista, portati sulla scena con passione e con dovizia di sfaccettature”.

Laura Sergi

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