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“Amore e non amore”: il primo atto di ribellione firmato Lucio Battisti

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Se il Lucio Battisti uomo, così come lo descrivono familiari e amici più stretti, era una persona piuttosto tranquilla e pacata, altrettanto non si può dire del Lucio Battisti artista che, spinto da un incessante desiderio di cambiamento e di evoluzione, ha fatto dell’irrequietudine la propria cifra stilistica. Ancora ben lungi dal clamoroso divorzio professionale da Mogol, consumato all’inizio degli anni Ottanta e preludio all’imprevedibile svolta artistica dei cosiddetti “album bianchi” firmati con Pasquale Panella, Lucio aveva mostrato segni inequivocabili di un’anima artistica non solo latina (riferimento d’obbligo al suo album più sperimentale in assoluto, Anima latina, 1974), ma soprattutto inquieta, già nei primi anni di carriera.

Prima ancora di Anima latina e del precedente Il nostro caro angelo, e prima ancora dello spiazzante episodio psichedelico de Il fuoco, inserito in coda a un disco per il resto “canonico” come Umanamente uomo: il sogno (1972), possiamo individuare in Amore e non amore, uscito cinquant’anni fa (estate 1971), il primo, ufficiale momento di rottura nella carriera di Lucio Battisti. Lo si può considerare quasi come un atto di ribellione da parte dell’artista verso un mondo, quello dello spettacolo, che, dopo averlo inizialmente ignorato come cantante ed essersi poi ricreduto sulle sue doti vocali, lo aveva eletto “cantore italiano dell’amore” per eccellenza, aspettandosi da lui solo dischi in linea con l’etichetta che gli aveva prontamente affibbiato. Ed era bastato appena un album, il fortunato disco d’esordio omonimo (Lucio Battisti, 1969, composto da una raccolta dei 45 giri pubblicati in precedenza più alcune canzoni scritte per altri di cui Battisti aveva deciso di riappropriarsi), oltre alla positiva partecipazione sanremese con Un’avventura, a provocare questo repentino cambiamento delle quotazioni di Lucio. Ma la crescita dell’entusiasmo di pubblico e critica era direttamente proporzionale a quella dell’insofferenza di Battisti verso un mondo di cui non condivideva meccanismi e regole. L’uscita dell’album Emozioni (1970) non aveva fatto altro che “aggravare” la situazione: un successo enorme che, anziché predisporlo positivamente a una maggior esposizione mediatica, al contrario aveva acuito quel processo di chiusura che lo avrebbe portato gradualmente – ma neanche troppo, per la verità – a ritirarsi dalle scene e dalla vita pubblica.

Possibile – ci si potrebbe chiedere – che Battisti, dopo un solo album di successo e ancora all’inizio della sua avventura professionale, si fosse già stufato di tutto il “carrozzone” e sentisse il bisogno di smontare il giocattolo e fare qualcosa di nuovo?! Ebbene sì! Questione di carattere, certo, ma non solo: ci sono altre ragioni alla radice di questa insofferenza. Bisogna considerare che Lucio, nel 1969, era tutt’altro che un esordiente di “primo pelo”, avendo già ventisei anni sulle spalle, di cui almeno una decina vissuti come musicista, dagli esordi come chitarrista nei Mattatori e nei Campioni, fino ai cinque anni circa trascorsi a farsi le ossa negli studi di registrazione come compositore e produttore – ruoli su cui aveva puntato inizialmente, specie dopo l’insuccesso del suo primo tentativo come cantante, il raro 45 giri Per una lira/Dolce di giorno (1966) – dopo l’incontro con Mogol e l’ingresso nella prestigiosa casa discografica Ricordi. Era quindi legittimo che un artista già rodato e consapevole di sé, pur avendo all’attivo soltanto un album, coltivasse certe ambizioni artistiche, tanto più se dotato di uno smisurato talento creativo come il suo.

Desideroso di mettersi alla prova con un LP vero e proprio, cioè con un album composto interamente da inediti (sia Lucio Battisti che Emozioni sono di fatto album antologici, cioè raccolte di 45 giri già pubblicati), e forte della credibilità guadagnata sia come autore che come cantante, Battisti decise di alzare il tiro e nell’ottobre del 1970 registrò finalmente quello che considerava il suo vero 33 giri d’esordio, Amore e non amore. Si trattava di un progetto ambizioso e sperimentale a trama concept (il tema portante è l’amore, considerato sia negli aspetti positivi che in quelli negativi), in cui quattro canzoni, che raccontavano situazioni di “non amore”, si alternavano ad altrettanti brani strumentali per orchestra – diretta dallo stesso Battisti – che simboleggiavano invece i momenti di “amore”. La disinvolta Dio mio no, che apriva l’album, oltre che per gli oltre sette minuti di durata (era la canzone più lunga di Battisti fino a quel momento), fece parlare di sé per la decisione della Rai di censurarla a causa di alcuni passaggi del testo ritenuti all’epoca troppo espliciti; tra gli strumentali, spiccavano la splendida Seduto sotto un platano… e la conclusiva Una poltrona, un bicchiere di cognac…, caratterizzata dai vocalizzi di Battisti e dalla presenza del sitar nel finale.

Pur trattandosi di un’operazione coraggiosa e qua e là geniale, Amore e non amore è un disco non del tutto convincente, che la Storia stessa ha relegato ai margini della discografia battistiana. Ma questo legittima solo in parte (e, agli occhi di Battisti, per nulla) la decisione dei dirigenti della Ricordi che, preoccupati da un possibile flop commerciale (timore rivelatosi poi infondato, visti i buoni risultati di vendite ottenuti), decisero di rinviare di alcuni mesi la pubblicazione dell’album, preferendo andare sul sicuro puntando sull’antologia Emozioni. Battisti, in scadenza di contratto e ormai in procinto di passare definitivamente alla Numero Uno, l’etichetta fondata nel 1969 insieme ai Rapetti (Mogol e suo padre Mariano) e ad altri “dissidenti”, prese molto male la cosa. L’episodio contribuì senz’altro ad accrescere la sua sete di libertà artistica, ma anche a rafforzare quell’atteggiamento intransigente e poco incline ai compromessi che caratterizzerà il rapporto con il mondo dello spettacolo – pubblico compreso – per il resto della sua vita.

Francesco Vignaroli

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