Norbert C. Kaser, dal ventre esposto della poesia: una lettura

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Ricordato sovente come il più importante poeta italiano di lingua tedesca, la figura di Norbert. C. Kaser ci appare oggi a più di quarant’anni dalla scomparsa come emblematica e rilevante di un mondo non più strettamente identificabile con- o solamente con- quel lembo di terra che ha nome Sudtirolo, o Alto Adige ma più direttamente riferibile a quel mondo di perpetuate negazioni, di ferite da disconoscimento che la condizione umana, la storia viene a incidere più che nei popoli dapprima nei singoli nell’intimità di universi al costo di una storia senza freni nelle sue divoranti aspirazioni. Così la questione drammaticamente e poeticamente rovesciata nella narrazione di una scena come fuoriuscita dalle tele di Bruegel non è tanto di chi è la terra, ma per cosa è la terra, perché l’uomo nella terra nella chiamata ad un partecipato stupore che se ha del bambino tutta la nudità della richiesta pure del bambino ha già la sua rivolta dai padri. Il tema del padre allora forse può muoverci all’interno di un dettato anarchicamente splendido nel partire dalle sue proprie perdite, dagli sbocchi di un sangue incrostato di troppi spessori a dire allora nella simbologia di un’Europa divisa il preannuncio, l’allarme di una emorragia ancora in atto. Nato a Bressanone figlio illegittimo riconosciuto poi dal marito della madre, Kaser ha già nel dato biografico tutta l’allergia al costume dell’heimat, a quell’ intreccio più o meno silenzioso, conscio, di legami che nelle tracce, nello spazio a lui riferibile, non dicono più di un origine il valore dell’intendimento ma l’interessato dominio, la temuta- e conveniente- obbedienza. L’identità allora nel magnifico richiamo ad ognuno, d’ognuno, è data dalla lingua, nell’incontro tra il sé e la narrazione di un meccanismo di realtà avvertito e subito in tutta la violenza dei suoi disinganni, delle sue trappole, nell’ipocrisia di un mercato d’anime che a partire dal corpo fa dalle sue strade, dai rivoli delle campagne e dei pascoli, grottesco addobbo di un demoniaco possesso. Solo la lingua allora, dal corpo e dall’anima riflessa nei richiami, anche animaleschi certo, di una mozza e derubata creaturale aspirazione può farsi strumento di una dimenticata ed offesa fuoriuscita, a patto però (a lui venendo molto facile per la verità) di partire, di ricominciare dal basso,  nella familiare comune povertà che è principalmente del sapere, del vedere, dell’appartenersi stesso.

Nella lotta di reciproci rigetti, di una nudità al contrario ora bandita perché non riconoscibile in una società che si nutre-  e nutre- d’ombre, ora dall’uomo prima che dal poeta concretamente e simbolicamente perseguita, la scrittura allora in tutta l’irriguardosità di una grafia e di una punteggiatura inconsueta (tra l’altro con l’uso esclusivo delle minori, delle & commerciali), di una versificazione spezzata nel profluvio e nell’asciuttezza come di fiume, la commistione dei gerghi, il ricorso a tratti al dialetto si fa strumento nelle sue incursioni oltre che come detto del reale, di sua decodificazione, di suo disinnesco nel ricorso e nel riporto da una allarmata e deturpata- e perciò- desacralizzata temporalità di uomini ed elementi ad una evangelica e stridente, nel violente contendere degli opposti, luogo di spoliazione e dunque di remissione da un esercizio- e servizio- soggettivo del reale stesso. Malattia dell’anima e dell’occidente che se ha tra i riferimenti più vicini nella nube della scrittura i nomi tra gli altri di Trakl, o più vicino quello di Benn, nel disegno dei tratti, delle sagome di corpi e figure nodose e stanche dalle nevrosi delle proprie stanze, anche mentali sì, lo sguardo penetrante (perché più vicino nella richiamata luce alla morte) di Shiele. Il tutto semplicemente a risalire, come già ben Toni Colleselli ebbe a rivelare,  dalla “base di impressioni e di occasioni contingenti, la forza nel fatto che la contingenza non comporti una limitazione ma sia manifestazione di un universale, di un mondo, di un approccio al mondo”.  E il mondo è quello di una biografia che da subito ebbe a irrompere nella scena letteraria del SudTirolo in tutta la sua dirompente forza polemica, dall’intervento nel 1969 al convegno dell’Associazione studentesca del SudTirolo in cui puntando l’indice contro la letteratura del dopoguerra in quella  regione veniva ad annunciarne la fine, lui randagio di più lavori, credente (trascorse da ragazzo un periodo in un convento di cappuccini) ma senza chiesa (“perché sono religioso”), politicamente attivo (vicino al Pci) ma poi discosto dalle sue cellule, rappresentante più degli altri come ebbe già a rilevare Claudio Magris di una generazione a suo dire stesso “bloccata”, tra il non poter tornare indietro e la paura di andare avanti .

Ciò che qui preme sottolineare, nella dignità di una poesia a nostro dire tra le più significative di un novecento europeo forse non esattamente compreso, è la forza di un dettato che non rigetta la rovina, la caduta del tempo dato ma se ne fa carico, le condivide partendo da se stesso nell’oscenità di una società e di una cultura chiusa, spesso razzista, all’interno anche dei suoi stessi circuiti, e nell’originalità, forse unica o forse soltanto dei poeti veri, di un’assunzione espressionistica del mondo nella sua forma lirica- la sola possibile- sacra allora se spesso nell’urto restitutivo dello sfacelo la remissione è sempre nel grido dei suoi innumerevoli agnelli (di osterie, di scuole, di campi di lavoro, di corpi d’ospedale), cristi di poveri cristi nella posa d’acquasantiera e d’elemosina a perdere di una comunità a svendersi nel rossobiancorosso della sua bandiera. Sacralità ancora che ha ancora il suo affondo e la sua direzione nella natura, in quella terra di cui avverte la partecipata bellezza nella bolgia e nella doglia di un’umanità dimentica, i risultati migliori questa poesia offrendoli infatti nella divaricazione e nella tenerezza di questa ferita, la tenerezza in tanto aspro guerreggiare tra le note più tragicamente dominanti del suo carattere (non dimentichiamo che tanto ebbe Kaser a scrivere per l’infanzia, essendo stato nella sua breve trentennale vita anche maestro elementare- si vedano ad esempio le poesie a “scherzo” proprio per i più piccoli). Anche per questo allora la parabola di Kaser appare allora oggi ancora più forte nel trasfigurato richiamo di un umano riportato nel dialogante rapporto col suo ambiente alla piena dignità di se stesso, elemento in apprendimento tra gli altri, dagli altri, non dominante, nella rivisitazione di una interrogazione, di una cultura che non ha l’uomo al suo centro (e di cui da quella terra è bene ricordare nell’opera il compianto Alexander Langer). Questo anche a togliere un po’ di polvere, a cui lo stesso Kaser certo ha contribuito, da quel ritratto in eccesso che ha ingabbiato la sua figura anche tanti anni dopo la morte, frenandone in vita le pubblicazioni stesse. Poeta europeo a tutto tondo e tra i più dirompenti, che ancora molto ha da indicare e di cui oggi finalmente è possibile leggere da noi quasi l’intera produzione, “Rancore mi cresce nel ventre”, nella splendida cura delle “Edizioni alpha beta verlag” (2017,  Merano/Meran) dopo l’uscita nel 1988 dell’opera omnia in tre volumi (Poesia, Prosa, Lettere) presso l’editore Haymon di Innsbruck. Ecco, intanto, allora: “alto adige/ alto fragile//terra di turisti/terra di transito/terra di nessuno//troppo lungo il requiem/ perché la morta risorga/ma le orazioni funebri/ non mollano il cadavere//andreas hofer/ non corruttibile/non tramandabile/ma la bara/ è tutt’ora aperta//pi po pa patria”.

Gian Piero Stefanoni

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