l’ULTIMO DESIDERIO di Pietro Favari (sesta puntata)

Data:

A seguire la sesta puntata del romanzo di Pietro Favari.

SESTA PUNTATA

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Marion guarda sconcertata Marco. Lui indossa una camicia a fiori, stivaletti ricamati e pantaloni a zampa di elefante in perfetto stile anni Settanta, che gli vanno stretti.

<<Ti lamenti sempre che non ti faccio uscire… Per andare dove? Magari in discoteca, come tutti i tuoi coetanei. Folla, chiasso, impossibile dialogare, magari droga… Non è meglio se la discoteca ce la facciamo in casa? Guarda, ho appeso anche la palla a specchi che gira e che ho conservato da allora>>.

Mostra la palla che s’illumina e incomincia a ruotare.

<<Me la regalò mia madre, ero un ragazzo e lei non voleva che uscissi per andare a ballare… Nella mia cameretta avevo ricostruito una piccola succursale dello Studio 54 di New York! Purtroppo alle mie feste non veniva quasi nessuno e spesso mi ritrovavo a ballare da solo…>>.

Marion gli gira intorno e lo guarda divertita

<<Perché ti sei vestito in quella maniera buffa?>>.

Marco la guarda seccato.

<<Cosa ci trovi di buffo? Era la moda degli anni Settanta, indimenticabile!>>.

Marco trattiene il fiato per abbottonare in vita i pantaloni.

<<Mi vanno ancora bene… Buon segno! Ho ancora tutti i dischi di allora! I Bee Gees, Donna Summer, gli Abba, i Village People e la regina incontrastata di allora. Tutti i salmi finiscono in gloria… Gloria Gaynor naturalmente… Conosci? No? Non sai cosa ti sei persa… Ma si può sempre rimediare…>>.

Marco apre un vecchio giradischi e mette sul piatto un disco di vinile. Esplode la voce di Gloria Gaynor che canta I Will Survive>>.

Marco si mette a ballare in maniera goffa, osservato da Marion che lo guarda stupita. Tenta, a fatica, di coinvolgerla nella danza. Si ferma.

<<Non ti piace I Will Survive? Proviamo i Bee Gees, la febbre del sabato sera!…>>.

Marco cambia il disco e mette Stayn’ Alive e cerca maldestramente di imitare le mosse di John Travolta in La febbre del sabato sera.

Marion spegne il giradischi. Marco si ferma, ansimante.

<<Ah, il mio cuore!… Non è rimasto lo stesso degli anni Settanta…>>.

Marion prende dal tavolo l’iPhone di Marco, digita velocemente, si diffonde una musica africana. La ragazza incomincia a danzare, sensuale e sempre più intensa, fino ad entrare in una sorta di trance.

23

Carlo pedina Filippo, il marito di Pia. Lo segue nei caruggi del centro storico di Genova. Filippo bussa a una porta, gli apre una bella donna vistosa che lo bacia con trasporto. Carlo scatta delle foto con il suo cellulare.

Primo piano della immagine che ha fissato il bacio di Filippo con la donna dei vicoli.

Quella foto ed altre sono ora sparpagliate sulla scrivania di Carlo. Le mostra a Pia, che non riesce a nascondere il suo nervosismo e il suo disappunto.

E’ seduta di fronte a Carlo, che tira fuori dal cassetto della scrivania una cartella che unisce alle fotografie.

<<Questa è la mia relazione. Ma non sarebbe necessaria. Le immagini sono piuttosto eloquenti.

<<Mi dispiace… Vorrei non aver risolto così in fretta la sua richiesta>>.

Pia osserva rabbiosa la documentazione fotografica.

<<Già, dispiace anche a me…>>.

<<Dietro le foto ho segnato l’indirizzo della donna. Abita nei vicoli>> aggiunge Carlo.

Pia ringrazia ed esce dallo studio sotto lo sguardo amareggiato di Carlo.

L’investigatore esce dallo studio per andare nella parte di appartamento che considera riservata alla sua abitazione, dove si prepara qualcosa da mangiare.

Mentre cena, accende il televisore e guarda un telegiornale che trasmette immagini di migranti approdati a Lampedusa.

24

Le stesse immagini di migranti sono trasmesse anche dal televisore di Marco che insieme a Marion guarda il Tg.

La voce del giornalista comunica la notizia di un ennesimo sbarco di migranti.

Marco spegne il televisore con il telecomando. Si versa del whisky.

<<Siete troppi, siete troppo diversi>> dice a Marion. <<E’ impossibile accogliervi tutti. Tu perché sei venuta? Lo sapevi che attraversare il Mediterraneo è pericoloso? Si rischia la morte…>>.

Marion gli risponde con una smorfia.

<<Meglio la morte in mare piuttosto che la vita nel mio paese>>.

Marion guarda fissa davanti a sé come se si stesse rivedendo nel periodo precedente al suo arrivo in Italia.

25

Una strada alla periferia di una città africana. Marion, con uno zaino sulle spalle, sale insieme ad altre persone su un vecchissimo autobus che poi si dirige barcollando verso il deserto.

Qualche giorno dopo l’autobus si ferma nel deserto per la sosta notturna. L’autista controlla le provviste. Stanno finendo.

E’ notte. Marion è costretta a bere la propria urina, conservata in una bottiglia di succo di frutta. Una compagna di viaggio la guarda bere. Anche lei è assetata ma ha finito la sua urina. Marion le cede la sua bottiglia. Poi è costretta a comprare quella di un compagno di strada.

I viaggiatori si preparano a trascorrere un’altra notte nel deserto. Dormono per terra avvolti nelle coperte.

Marion si sveglia di soprassalto, vede un’ombra che sta frugando nel suo zaino, estrae un coltello dalla tasca per difendere le sue povere cose.

La luce della luna svela l’identità dell’ombra: è la donna alla quale ha dato da bere. Lei scoppia in lacrime, pentita per il tentativo di furto a una compagna. Le due si abbracciano.

Confine con la Libia: le guardie di frontiera accolgono a fucilate i profughi che scendono dall’autobus e cercano riparo. I sopravvissuti vengono arrestati.

Nel cortile di una prigione libica il poco cibo che viene distribuito provoca delle risse tra i detenuti. Un gruppo di loro, più grossi e più forti, hanno la meglio sugli altri africani.

Due guardie libiche aprono la porta di una cella dove sono detenute le profughe, che si svegliano urlando spaventate.

Le guardie afferrano una di loro, giovane e bella, e la trascinano fuori con violenza.

Una troupe televisiva giapponese sta girando un servizio giornalistico sulle prigioni libiche dove sono detenute le profughe. La telecamera inquadra una cella dove decine di donne si accalcano urlando dietro le sbarre.

Tra loro c’è Marion.

Marion è in un gommone quasi sgonfio affollato da uomini, donne e bambini in viaggio nel Mediterraneo.

Durante l’estenuante viaggio lei siede accanto ad Angelo febbricitante, e a Gaston, un giovane nero dalla folta barba, e di nascosto porge loro una piccola borraccia di acqua.

Si parlano sottovoce.

<<Non fatevi vedere a bere. Potrebbero gettarvi in mare per rubarvi queste poche gocce. Come vi chiamate?>>.

I due giovani hanno poche forze ma con un debole sorriso si presentano.

<<Mi chiamo Angelo>>.

E’ lo stesso che ha assistito allo stupro nel villaggio e al safari metropolitano.

<<Io, Gaston… Grazie di aver dato da bere a un assettato>>.

Non hanno la forza per continuare a parlare ma con gli occhi si comunicano solidarietà.

Il mare è mosso, le onde mettono in pericolo l’imbarcazione che rischia di affondare. I viaggiatori urlano disperati, qualcuno cerca soccorsi con il cellulare.

Un peschereccio avvista il gommone, i marinai lo accostano e iniziano le operazioni di salvataggio dei naufraghi.

26

Carlo guarda per un po’ il telegiornale che trasmette le immagini del salvataggio di migranti. Poi, spegne il televisore, cerca tra i dvd, ne sceglie uno, riaccende la tv e lo inserisce nel lettore. E’ Il falcone maltese con Bogart. Carlo sceglie alcune brevi sequenze.

27

Ma perché scrivo libri? Domanda scema.

Rispondo direttamente in prima persona. Non voglio intermediari, come per esempio l’autore di questo libro che state leggendo.

Li scrivo perché me li pubblicano e perché li vendo, i libri. Tanti. E faccio tanti soldi. Purtroppo una parte li devo dare allo “scrittore fantasma”, quello stronzo che scrive per davvero i miei libri. Perché li scrive proprio lui, e non un computer. Quella è un altra delle leggende metropolitane su di me che ho fatto credere.

Li scrive lui. Però li firmo io.

Me lo sono anche scopato, una volta.

Ero ubriaca.

E’ meglio se si limita a scrivere libri.

Dicevo? Ah sì. Perché scrivo libri. Perché li leggono.

Perché? Questa è una bella domanda. A cui però non saprei rispondere. Forse perché sono stronzi anche i lettori. Tanto più se leggono e apprezzano quello che s’inventa “il mio scrivano fantasma”.

C’i sono tanti modi di scrivere un libro, dice lui. Mica vero. Lo dice per farsi pagare di più. E magari perché mi vuole scopare qualche altra volta. Ma se lo scorda. Non mi ubriaco più, quando lui è nei paraggi.

Gli schemi per raccontare una storia sono più o meno sempre gli stessi e non sono certo infiniti. Qualcuno ha anche provato a contarli.

I francesi. A queste cose ci tengono.

Un certo Etienne Souriau è arrivato a una cifra pazzesca: duecentomila schemi narrativi! Figuriamoci! Come avrà fatto a contarli?

Un altro, Georges Polti, non era certo d’accordo con Etienne e ha proposto un numero piuttosto ragionevole: trentasei.

Io però credo che ci si possa limitare a due titoli: l’Iliade e l’Odissea.

L’Iliade è verticale. Sono gli assedi, qualcosa che fissa l’azione e invita alla riflessione.

L’Odissea al contrario è orizzontale. E’ il viaggio, è voler affrontare qualcosa di imprevisto.

Certo, bisogna curare bene le funzioni, quello che avviene, gli eventuali colpi di scena per sorprendere chi legge. Ma non bisogna dimenticare gli indizi; per esempio il racconto del carattere e delle psicologie dei personaggi, le descrizioni degli ambienti e dei panorami.

Lo dico sempre al mio “fantasma” ma lui niente. A volte devo proprio aggiungere io qualche descrizione di una casa, di un vestito, di un volto. Per lui contano solo le azioni.

Ho tentato di fargli leggere Proust, ma niente. La Recherche lo annoia. Lui preferisce Diabolik.

Figurarsi se per esempio si mette a descrivere l’abito dell’eroina, pizzi e voile.

Lui piuttosto la fa mettere subito nuda. In questi indizi è piuttosto bravo, ispirato. Devo riconoscerlo.

Quella volta che mi ha scopato, per farmi spogliare si era inventato che voleva osservare la curva del mio fondo schiena per raccontarla nel romanzo.

Aveva anche preso appunti.

Le signore che leggono, e sono la maggioranza, vogliono sapere dei sentimenti.

Non solo del culo.

Ora i miei ultimi romanzi li voglio scrivere in prima persona. Continua a scriverli lui ma tutti devono pensare che sia sempre io, l’autrice. Alle signore piace che il racconto lo faccia una signora. Si sentono più coinvolte. Pensa te.

E pensa se scoprissero che dietro la mia scrittura al femminile in realtà c’è quella bestia immonda del mio “scrittore fantasma”!

In narratologia si chiama “focalizzazione” il punto di vista di chi racconta. Può essere “zero” e il narratore in questo caso è onnisciente, ne sa più dei suoi personaggi ed è come se li osservasse dall’alto, e tutto vedesse. Come un dio della letteratura.

Così scrivevano i grandi autori dell’Ottocento.

E anch’io lo faccio. Anche se il mio schiavo protesta. Dice che è vecchio stile.

Poi c’è la focalizzazione “interna”. Quella che vorrebbe lui. Il narratore dice solo quello che sa il personaggio in questione. E’ una strategia in uso soprattutto nel romanzo novecentesco. Nevrotico. Analizza dall’interno i propri personaggi.

Infine c’è il punto di vista “esterno”. Il narratore ne dice meno dei protagonisti. E’ tipico dei romanzi gialli perché il lettore deve scoprire anche lui chi è l’assassino.

Forse anch’io prima o poi scriverò un giallo. Naturalmente lui non vuole. Dice che è troppo complicato e vuole più soldi.

Credo che uno dei motivi del successo in letteratura sia anche la necessità di raccontare, di trasformare la realtà, di darle un significato altro. La scrittura deve diventare la cosmetica della vita. Deve far sognare e far credere che si possa vivere anche in altri modi possibili.

Anche gli incubi vanno bene. In questo caso non occorre il maquillage, ma il trucco violento che trasforma i personaggi in mostri.

E poi non dimentichiamo l’ostacolo. Senza quello non si procede. O meglio, tutto diventa privo di interesse.

Per esempio. Lui ama lei e lei ama lui. Nell’opera lirica il tenore ama la soprano e da lei è riamato. Ma il basso o il baritono vuole essere lui a farsi per primo la soprano. E le cose si complicano.

Questo vale anche nella sceneggiata napoletana ma perfino nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni.

Scribo ergo sum.

Scrivere può essere una necessità profonda per conoscere se stessi e la realtà intorno a noi. Come andare dallo psicoanalista. Io però non ci vado e invece di pagarlo un tanto a seduta preferisco intascare i diritti d’autore. Mi fa anche più bene e ci guadagno.

C’era una volta…

Cambiare la realtà. Soprattutto la propria realtà…

La mia vita è come un romanzo. Frase stupidissima che ogni tanto qualcuno o qualcuna in qualche stupidissima intervista si lascia scappare.

Anche a me è scappata. Eppure io ho iniziato a scrivere proprio perché la mia vita era diventata come un romanzo. O forse assomigliava alla mia vita il primo romanzo che ho scritto. Proprio io. Allora non avevo ancora lo scrittore fantasma.

Fu un grande, e inaspettato best seller, il mio primo libro. Pubblicato a mie spese perché non avevo trovato nessun editore interessato. Come era capitato a Proust. Perché era successo, il successo? La prima a restare stupita fui io. Avevo raccontato la mia storia d’amore parlando della morte.

O meglio. Il mio amore per un impresario di pompe funebri. Forse era questo che aveva tenuto lontano gli editori. Invece era piaciuto a qualche critico letterario. E poi ai lettori. In effetti era una novità. Una Giulietta che spasima per uno che fa i soldi con i cofani funebri.

Romeo, Romeo, perché tu sei Romeo? Ripudia le tue casse da morto. Se non vuoi farlo almeno giura di amarmi!”.

Romeo – Pierfrancesco nel mio caso – aveva giurato di amarmi e quindi mi ero concessa anima e corpo. Forse soprattutto il corpo. Ma lui non aveva rifiutato le bare, troppo redditizie, dove alla fine era finito sepolto il nostro amore.

Mi aveva perfino costretta a fare sesso con lui dentro a una bara. Si eccitava così. Sopratutte lo attizzavano quelle rivestite all’interno di seta rossa.

Come sottofondo musicale metteva qualche Messa da requiem. Lo eccitava molto quella di Verdi. Dies illae, dies illa, Salvet saeclum in favilla…

Ma a volte metteva quella di Mozart o quella di Donizetti.

Forse è proprio dentro un cofano funebre che mi ha messo incinta ed è nato nostro figlio. La vita generata dalla morte. O almeno dalle case da morto.

Era uscito il mio primo libro, appunto un inaspettato successo.

Volevo continuare la mia carriera. Interviste sui giornali e in televisione, gli editori che premevano perché continuassi a scrivere, incontri in librerie con lettori che mi chiedevano di firmare le copie del romanzo, ancora profumate di carta stampata e inchiostro… Un odore inebriante…

Pierfrancesco era geloso del mio successo. Forse anche invidioso. Ero diventata nota come scrittrice e non più come moglie di un ricco e famoso impresario di pompe funebri. Avrebbe voluto che rinunciassi a scrivere il seguito del romanzo di esordio e che mi dedicassi a far crescere nostro figlio.

In mezzo alle casse da morto.

Dove qualche volta mi ero accorta che dentro ci avesse messo a dormire Diego neonato.

Dovevo decidere cosa fare. Una vita di successo come autrice o la morte come scelta di vita?

Decisi di divorziare per dedicarmi a tempo pieno alla scrittura. Pierfrancesco ottenne che nostro figlio Diego fosse affidato a lui. Così avrei avuto tutto il mio tempo da dedicare alla scrittura, disse.

Già. Tutto il tempo inutilmente seduta davanti al computer. Tanto da farmi abbagliare da quello schermo sempre acceso. E vergine.

Un pomeriggio ero scampata all’ipnosi da computer per partecipare a un’ultima presentazione del mio romanzo in una libreria.

Forse sarà davvero l’ultima, pensavo mentre scarabocchiavo con la mia firma qualche copia. Cerimonia che mi mancherà tanto, pensavo. Stavo per tornare tristemente a casa, quando un uomo mi porse un libro. Lo presi per firmarlo ma mi accorsi che non era il mio.

Non è il suo romanzo, mi disse. E’ il mio. Anche se è firmato da un altro, che me lo ha commissionato. Sono uno scrittore fantasma ma sono vivo e in carne e ossa. Lo legga e impari come si scrive!”. Uscì senza salutarmi.

Incuriosita, sfogliai il volume e mi misi a leggerlo. Confesso che mi prese. E lui mi sedusse. Non per il suo aspetto fisico – un quarantenne con la faccia grigia e anonima come il suo vestito – ma per la sua scrittura. Che non era né grigia né anonima. Per niente.

Sono uscita, turbata, e sono rimasta ancora più turbata. Perché lui era rimasto fuori dalla libreria ad aspettarmi.

Lo invitai a cena. Lui accettò ma a patto che pagassi io il conto. “Perché deve pagare sempre il maschio al ristorante? Lei ha rubato i soldi del suo libro. Anche a me che l’ho comprato. Si vergogni!”.

Parlammo di letteratura e non ero d’accordo praticamente con nessuna delle sue idee ma tuttavia restavo affascinata, come da quelle poche righe che avevo letto prima.

Alla fine della cena – pagata da me anche se il ristorante l’aveva scelto lui, uno dei più cari della città – lui fece qualche tentativo d’approccio. Forse eccitato anche dal conto, ma io evitai, saggiamente. Anche perché a casa non mi aspettava un gatto, che almeno mi avrebbe fatto le fusa, ma un computer in attesa, illibato e minaccioso.

Parlammo ancora di romanzi. Lui diede qualche idea. “Per cambiare, non per dare un seguito a quel suo insulso libercolo”.

Ero incuriosita. E impaurita. Gli chiesi di scrivere qualche pagina. A mio nome, s’intende.

Lei è un uomo, ma deve risultare che chi scrive è una donna. Io. C’è qualche problema?”.

Nessuno. Io sono bisessuale nella scrittura. Solo nella scrittura. Vuoi che te lo dimostri?”.

Pietro Favari

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