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“FRATELLId’ITALIA? Storie di migrazioni”. Drammaturgia di Pietro Favari, regia Franco Gervasio

Data:

FRATELLId’ITALIA?

Storie di migrazioni

Drammaturgia di Pietro Favari

Regia Franco Gervasio

Festival dei Due Mondi

Spoleto 2010

Siamo una collana di perle che è stata recisa,

le perle sono rimbalzate da tutte le parti.

Cristina Alì Farah

Migranti

AIDA HOXHA Albania

HODAN TAHIR YUSUF Somalia

MARIANA VRINCEANU Moldavia

DANUTA WASILEWSKA Polonia

GASTON BIWOLE Camerun

JOSELITO GANDIA Filippine

JEAN CLAUDE MUGABO Ruanda

e con

DARIO VERGASSOLA Italia

Prima dell’alzarsi del sipario una/o degli interpreti esce al proscenio.

PROLOGO – Signore e signori buonasera. Una breve premessa prima di iniziare la rappresentazione. Noi non siamo attori professionisti, siamo gl’interpreti di questo spettacolo ma ne siamo anche i personaggi: le vicende che raccontiamo sono vere e fanno parte della nostra vita.

Gli immigrati in Italia sono più di quattro milioni e mezzo di persone provenienti da ogni parte del mondo, ma un evento così rilevante è formato da altrettante vicende umane, piccole o grandi, liete o dolorose, normali o straordinarie. Noi ve ne raccontiamo sette, come invito a pensare al tema dell’immigrazione non soltanto sulla base di valutazioni politiche, sociologiche, economiche ma anche con un’attenzione alla complessità dei valori umani che stanno dietro a questa realtà. Realtà che molti italiani hanno vissuto a loro volta come emigranti in tempi non troppo lontani.

Grazie. E ricordatevi di spegnere i vostri cellulari.

Buio. La voce di Aida recita una poesia di Rimbaud tradotta in albanese.

AIDA – Dikur, nese me kujtohet mire, jeta ime ishte nje gosti ku hapeshin te gjithe zemrat, ku derdheshin te gjite vererat…

(Con nostalgia)

Rimbaud!…

(La poesia di Rimbaud prosegue in italiano)

Siamo fuori dal mondo.

Più nessun suono.

Io non dirò parole,

non penserò più nulla,

ma l’amore infinto

mi salirà nel petto

e lontano, lontano, andrò.

Come uno zingaro.

La scena s’illumina lentamente a mostrare Aida, sola, appoggiata a un divano con la forma dello stivale d’Italia. Accanto a lei una valigia.

AIDA – Rimbaud era proibito in Albania. In quei tempi tante cose erano proibite dal regime, quasi tutte. Bisognava avere paura anche dei propri pensieri.

Accadeva che alla polizia i figli denunciassero i genitori, i genitori i figli, i mariti le mogli, le mogli i mariti.

Era proibito Rimbaud ma anche la Carrà e il Festival di Sanremo ma tutti o quasi tutti guardavamo di nascosto la televisione italiana.

La mia vita in quei tempi la chiamerei “la luce del buio”. I miei sogni erano liberi.

(Luce piena).

L’Italia per noi era un paese dove tutti erano belli, ricchi, in case lussuose, macchine potenti, liquori costosi, i bambini mangiavano biscotti pieni di cioccolato e mulini bianchi in mezzo alla campagna…

Proiezione sul fondale di spot pubblicitari dei primi anni Novanta (la Milano da bere, il mulino bianco).

Dissolvenza incrociata con immagini degli anni Novanta di navi cariche di albanesi alternate a quelle dell’arrivo del piroscafo che trasporta immigrati italiani tratte dal documentario “Italiani in Brasile” di Ugo Gregoretti del 1957.

Mentre scorrono le immagini entra Dario che indossa un abito elegante.

AIDA (Guarda le immagini di “Italiani in Brasile”) Quelli sembrano albanesi, non italiani.

DARIO – Sono italiani degli anni Cinquanta.

(Si ascolta l’inizio della canzone “Santa Lucia luntana”).

AIDA – Chi fa le leggi sull’immigrazione dovrebbe ricordarsi quelle immagini.

(Rivolta a Dario) Mi chiamo Aida Hoxha, vengo dall’Albania e ho lo stesso cognome di Enver Hoxha, il criminale, ma non sono sua parente. Mio nonno per le proprie idee è stato condannato ai lavori forzati per sedici anni, la mia famiglia non ha niente a che fare con quel dittatore sanguinario che ci ha terrorizzati per più di quarant’anni. Un record da Guinness dei primati.

(Sul fondale appare un’immagine del leader Enver Hoxha).

DARIO (Rivolto agli altri migranti che entrano portando ognuno la propria valigia) Io sono italiano, mi chiamo Dario Vergassola, l’abito che indosso è di… (dice il nome dello stilista) ma è solo in prestito per il periodo del festival.

Mio nonno faceva il commercialista e votava per la Democrazia Cristiana. Ma sono bravo ad ascoltare.

(Rivolto a Joselito) Tu chi sei?

Mentre i migranti si presentano, sul fondale appare ogni volta una carta geografica con indicato il loro paese di provenienza.

JOSELITO – Io, la televisione italiana non la vedevo al mio paese, le Filippine. Mi chiamo Joselito Gandia e amo tutto quello che è bello, amo l’arte, e l’Italia è il paese della bellezza… Sono venuto in Italia per studiare pittura…

Per me l’Italia non era il mulino bianco ma la Cappella Sistina.

DANUTA – Nella televisione italiana non fanno vedere la Cappella Sistina ma (dice “ragazze nude” in polacco)… ragazze nude, a tutte le ore.

DARIO – E’ per questo che io lavoro in televisione, ma non me la danno lo stesso…

JOSELITO – Anche il corpo è bellezza, no?

DANUTA – Non so se fa bene ai bambini.

Mi chiamo Danuta Wasilewska.

DARIO – Bel nome Danuta. Esiste una santa Danuta?

DANUTA – Non lo so. Forse lo diventerò io. Sono polacca.

(Rivolta ad Aida) Anche da noi c’era la dittatura, ma non si stava poi così male con il comunismo: c’era da mangiare, le cure mediche erano garantite, e tutti studiavamo. Ho conosciuto l’Italia sui banchi di scuola, ho studiato l’antica Roma, Giulio Cesare, Dante, Michelangelo…

Quando sono arrivata in Italia nel ‘91, mi sembrava di esserci già stata. Anche un altro polacco era emigrato a Roma ma lui è stato accolto con affetto dagli italiani…

DARIO – Il calciatore Zibì Boniek?

DANUTA – No, no. Papish… Wojtyla, il Papa.

DARIO – (Rivolto a Gaston) E tu vieni dall’Africa, o sbaglio?

GASTON – (Rivolto a Dario) Perché lo vuoi sapere? Per voi europei l’Africa è come un unico grande paese, voi non fate distinzioni tra Niger e Nigeria, tra il Congo e la Repubblica Democratica del Congo…

DARIO (Sposta Gaston sotto un riflettore) Vieni sotto il riflettore… Se non prendi la luce non ti vediamo, sei abbronzato come Obama.

TUTTI GLI ALTRI – Sempre Berlusconi! Berlusconi…

GASTON Anche per noi africani l’Europa non è l’Inghilterra, la Francia o l’Italia. E’ l’Europa e basta.

DARIO – Scusa ti ho interrotto… Da dove vieni?

GASTON Vengo dal Camerun. Un giorno vicino alla stazione Termini incontro un amico africano con la valigia in mano. “Dove vai?”, gli chiedo. “Vado in Europa”. “Ma perché, qui non siamo in Europa?”. “No, questa non è l’Europa. Guarda quelle bottiglie per terra. Guarda i barboni. Gli spacciatori strafatti arrivano più tardi”.

AIDA – Proprio quello che il regime ci raccontava di voi: miseria, sporcizia, mafia, prostituzione, mentre l’Albania era un paese molto felice. Peccato che non ce ne siamo mai accorti.

Proiezione sul fondale d’immagini di Siad Barre in visita in Italia tratte da tg dell’epoca.

HODAN – Noi somali dal ‘91 non abbiamo più un paese, da quando è stato cacciato Siad Barre. Parlava perfettamente l’italiano. Negli anni Cinquanta era carabiniere a Firenze. Bella carriera la sua, prima sottotenente poi dittatore. Grande amico di Craxi, lo chiamavano “la grande bocca” per la voracità nell’esercizio del potere… Siad Barre, non Craxi.

Il presidente Pertini lo incontrò in una visita ufficiale a Roma e pensò che fosse doveroso chiedergli scusa per l’invasione coloniale degli italiani. Con un sorriso Siad Barre gli rispose che i somali erano stati benissimo ai tempi del fascismo e che nel ‘35 erano stati gli etiopi a provocare la guerra e non gli italiani. Da vecchio partigiano antifascista Pertini si scandalizzò molto per le dichiarazioni di “quell’eritreo – il padre della patria somala – che aveva studiato l’italiano sui verbali dei carabinieri”.

Il mio nome è Hodan Tahir Yusuf.

DARIO – (Rivolto a Hodan, Gaston, Jean Claude) Siad Barre, Amin Dada, Mobutu, Bokassa e tanti altri capi africani…

AIDA – Prima, tutti convinti rivoluzionari, poi, appena arrivati al potere, dittatori rapaci…

HODAN – Da quando è stato cacciato Siad Barre la Somalia è diventata un campo di battaglia per i signori della guerra e per i terroristi di Al Qaeda. E per noi anche avere un passaporto è un’impresa impossibile.

JEAN CLAUDE (Parla in dialetto pavese o bergamasco) A me i dialetti in Italia servono più del passaporto. Ho imparato il dialetto del paese dove vivo, nell’Oltrepò pavese, parlo anche il bergamasco e un po’ di bresciano. I vostri dialetti dovrebbero diventare la lingua degli immigrati per essere accettati.

DARIO – I leghisti vogliono che i dialetti si studino a scuola…

A proposito… il passaporto, il visto, il permesso di soggiorno…

(Rivolto ai migranti) Dovete rinnovare il visto? Siete tutti in regola?

I migranti aprono le loro valigie, frugano tra gli effetti personali e tirano fuori i passaporti che mostrano al pubblico. Si mettono in fila facendo confusione.

Dario ritira i passaporti, li apre e confronta le fotografie con le persone.

AIDA – Non lo trova di cattivo gusto? Stavamo così bene, ci stiamo conoscendo… Me ne vado…

DARIO – No, no, per carità. Perché vuole andarsene?

AIDA – Perché mi ha turbata. Questo luogo è carico di vissuto, non si produce denaro ma emozioni, si parla di sentimenti.

Marc Augé ha definito non luoghi le autostrade, gli aeroporti, i centri commerciali. Ma doveva parlare anche dei teatri, che rischiano di diventare a loro volta dei non luoghi.

DARIO – Al suo antropologo francese contrappongo il nostro sociologo Andrea Del Lago che ha definito i sans papier “non persone” che si ostinano a credere di esistere. Nelle cosiddette società evolute si è persone solo se la legge lo permette, solo se si ha questo libriccino (mostra un passaporto).

JOSELITO – Non si dovrebbe usare la carta per fare passaporti, permessi, visti, per autorizzare o impedire di andare dove si vuole. Con la carta si possono fare cose bellissime, come scrivere poesie, disegnare…

Dalla sua valigia prende un album per gli schizzi e mostra i suoi disegni a Dario e al pubblico.

Dario restituisce i passaporti ai migranti, ne trattiene uno. Si rivolge a Jean Claude.

DARIO – Tu vieni dal Ruanda e ti chiami Jean Claude Mugabo… (Fatica a leggere per intero il nome sul passaporto) Uwiha… Come si pronuncia il tuo nome?

JEAN CLAUDE – Mugabo Uwihanganye.

(Rivolto a Dario) E’ facile. Prova a ripetere…

DARIO(Scandisce) U-wi-han-ga-nye…

JEAN CLAUDE – Ci sei quasi. Mugabo Uwihanganye significa “Uomo che ha pazienza”.

DARIO – Come i pellerossa? Che si chiamano Toro Seduto, Cavallo Pazzo?

JEAN CLAUDE – A me è andata bene, un mio amico il padre lo ha chiamato “Colui che porta il male” perché la madre era morta mentre lo partoriva.

GASTON – Io mi chiamo Gaston Biwole ma quando sono arrivato in Italia dal Camerun il nome sul mio passaporto era Alfred Emanga. Lui non era un sans papier, un pezzo di carta ce l’aveva, aveva perfino un visto d’ingresso per l’Italia…

Le luci si abbassano, un riflettore illumina Gaston e lo isola dagli altri personaggi.

GASTON – In Camerun andavo all’università e, come molti studenti, non mi piaceva quello che mi facevano studiare. Il Camerun è uno dei pochi paesi dell’Africa a non aver mai subito colpi di stato. Infatti da ventotto anni abbiamo lo stesso presidente, detto “l’uomo che non deve chiedere mai”. Il nostro immutabile presidente non va molto d’accordo con chi non è d’accordo con lui e con i suoi metodi di governo.

In una manifestazione studentesca sono stato arrestato e sbattuto all’inferno. Le galere del Camerun sono diverse dai grand hotel a sette stelle dove trascorre le vacanze il nostro presidente.

Il servizio lascia a desiderare… Fa schifo! Si dorme per terra, quando si dorme. Ti tiene sveglio la corrente elettrica, non per illuminare la cella ma per stimolare la conversazione con gli elettrodi ai genitali.

Le luci si alzano e si abbassano freneticamente, come per una scarica, simulata anche dallo sfrigolio dell’elettricità.

Il corpo di Gaston è scosso come se fosse attraversato dalla corrente elettrica.

Fuori scena delle voci concitate urlano comandi e imprecazioni in lingua bantu.

Buio improvviso. Le luci si alzano lentamente lasciando la scena in penombra.

GASTON – La scarica elettrica invade e devasta tutto il corpo, nemmeno un millimetro di pelle viene risparmiato. Tutto diventa dolore, sofferenza, anche il pensiero.

Il corpo è ingiusto, ci regala brevi istanti di piacere fisico ma sopporta la potenza del dolore senza limiti… Quasi senza limiti. Dopo ore e giorni di sofferenza il mio corpo ha avuto pietà di me e mi ha concesso di svenire.

(Luce piena su Gaston sdraiato per terra) Mi sono risvegliato in un letto di ospedale. Non mi hanno ucciso in una discarica. Volevano ricominciare la tortura. Non avevo sofferto abbastanza per meritarmi la morte.

JEAN CLAUDE (Rivolto a Gaston) Tu assomigli a mio fratello Alfred.

GASTON – Tu credi? Io sono più bello…

JEAN CLAUDE – Hai ancora voglia di scherzare? Buon segno.

Domani devo partire per l’Italia. Ho degli affari importanti da sbrigare. Doveva accompagnarmi Alfred. Al posto suo verrai tu con me. Qualche dollaro convincerà le guardie che la foto sul passaporto è proprio somigliante…

GASTON (Si rialza) E’ così che sono arrivato in Italia. Forse Alfred non ha mai saputo di avermi salvato la vita prestandomi la sua identità.

MARIANA (Rivolta a Gaston) A te un pezzo di carta ha salvato la vita, a me ha impedito di uscire dall’Italia. Se quella volta fossi tornata in Moldavia non mi avrebbero più dato il permesso di soggiorno.

Non ho potuto assistere alla morte di mio padre. E neanche a quella di mia nonna, che era molto importante per me.

Se avessi immaginato di non rivederli mai più, li avrei salutati in un’altra maniera. Non so quale, ma diversa.

Da quando sono qui posso misurare il tempo con i miei morti.

DARIO – Come in una fiaba un semplice visto può diventare il talismano, l’oggetto magico che fa superare l’ostacolo al viaggio dell’eroe.

Tutte le storie che gli esseri umani si raccontano hanno origine dall’Iliade e dall’Odissea: i progenitori, gli Adamo ed Eva.

Le Iliadi parlano di assedi, di ostacoli, di tempi perduti, di storie chiuse. Le Odissee invece narrano viaggi, ricerche, sono storie aperte. Sono il modello dei miti. E dei film di Hollywood.

(Rivolto a Mariana) E tu chi sei?

MARIANA – Sono Mariana Vrinceanu e vengo dalla campagna moldava.

Il viaggio dalla Moldavia all’Italia mi è costato 3.700 euro.

DARIO – E’ una grossa cifra, soprattutto in Moldavia. Chi te li ha dati?

MARIANA – Me li ha imprestati un’amica di famiglia…

DARIO – Però, generosa…

MARIANA – Se ti sembra generoso un interesse del dieci per cento… E meno male che era un’amica, altrimenti mi avrebbe chiesto il venti.

DARIO – Come ci sei arrivata in Italia?

MARIANA – Anch’io con un passaporto falso, come Gaston.

Con un viaggio organizzato io e altre persone abbiamo attraversato l’Ucraina su un piccolo autobus e siamo arrivati a Bratislava, dove ci hanno consegnato dei passaporti con le nostre fotografie ma con nomi di cittadini slovacchi morti.

Qualcuno ha fatto una soffiata, forse proprio chi aveva organizzato il viaggio, perché la polizia è entrata nella pensione dove dormivamo per arrestarci e rimandarci indietro.

DARIO – E perché l’avrebbe fatto?

MARIANA – Perché così quelli rispediti in Moldavia avrebbero dovuto pagare di nuovo per tentare un altro viaggio.

Io e una mia amica siamo riuscite a scappare. La mattina dopo abbiamo preso un treno per l’Austria. Da Vienna siamo arrivate a Mestre e poi finalmente a Roma.

DARIO – Un viaggio pieno di avventure, si direbbe organizzato da Mafia Tour. Sei coraggiosa. Cosa ti manca della Moldavia?

MARIANA – Mi mancano i miei figli, mia mamma, della mia terra mi mancano il vento, gli odori, i fiori, gli uccelli, i suoni.

(Dalla sua valigia prende una ruota di bicicletta e una canna. Fa sentire il suono prodotto facendo scorrere la canna sui raggi della ruota) Questo è il suono che mi manca di più, mi ricorda la mia infanzia.

A volte vorrei mettermi davanti a una finestra e rivedere i boschi dove correvo scalza da bambina. Non capivo la parola libertà ma la cercavo e la trovavo quando andavo a cavallo…

DARIO – Come si chiamava?

MARIANA – Orlik. Mi manca anche lui. Mi sarebbe piaciuto portarlo con me. Che bello andare al lavoro in groppa ad Orlik!

AIDA – A diciotto anni ho lasciato la mia casa. Mi sono imbarcata con la mia sorellina più piccola su una delle prime navi che venivano in Italia.

DARIO – E’ arrivato un bastimento carico di…

AIDA – Era un vecchio bastimento carico di albanesi, come quello che affondò nel canale di Otranto nel marzo del ‘97 dopo uno scontro con la guardia costiera italiana.

Ottantuno morti affogati, ottantuno disperati che fuggivano dalla miseria per inseguire un po’ del sogno italiano.

Sulla mia stessa nave viaggiavano degli operai di mio padre…

“E tu che ci fai qui, insieme a noi?”, mi chiedevano stupiti.

Su quella nave c’era l’avanguardia della migrazione albanese. Era il 1991. Allora non era difficile entrare in questo paese. Dopo sono cominciati i… Come li chiamate voi?… I “respingimenti”!

(Solleva il divano a forma di stivale, lo capovolge e lo muove come per colpire qualcosa) Ricordo ancora la vignetta di un giornale inglese dove lo stivale con la punta rovesciata prendeva a calci l’Albania.

DARIO – Secondo te noi italiani siamo razzisti?

AIDA – No, siete xenofobi.

Avete paura. Lo straniero è una minaccia per il vostro lavoro. E’ un sentimento passivo che le leggi contro gli immigrati fanno diventare attivo, così gli albanesi, come tutti gli altri extracomunitari, diventano l’uomo nero delle favole, l’ombra lunga di una minaccia.

DARIO – Magari per non farci pensare ad altri problemi.

AIDA – Le favole danno un’identità alla paura, quello che non si conosce si trasforma nel drago che tiene prigioniera la bella principessa.

DARIO – Clandestino uguale a criminale. Il razzismo viene considerato un effetto della migrazione.

JEAN CLAUDE – Anch’io ho una favola da raccontare. Il mio lavoro è proprio quello di inventare e raccontare storie, nella tradizione dei griot africani, i nostri cantastorie.

La mia favola s’intitola “Natale a Milano” e non inizia con “C’era una volta” ma con “C’è adesso”…

Tutti gli altri si siedono per terra formando un cerchio intorno a Jean Claude che dalla sua valigia prende un rotolo di tela, lo apre e lo appende. Sulla tela sono disegnati come in un fumetto gli episodi della favola.

JEAN CLAUDE – Due ubriaconi di notte scrivono sui muri di Milano: “Fuori gli stranieri!”.

Al mattino i milanesi si svegliano e vedono la scritta. Si aprono i bar. Il caffè dice al cacao: “Hai letto?” e insieme se ne vanno in Costa d’Avorio. Le gomme abbandonano le automobili e partono per l’Indonesia. Negli uffici i computer decidono di fare ritorno in Cina e in Giappone. Non parliamo dei tappeti che si mettono tutti a volare e ognuno di loro si dirige verso il proprio paese.

E’ Natale. Chi entra in Duomo vede Gesù Bambino che fa i bagagli.

San Giuseppe dice: “In questo paese siamo stranieri, dobbiamo andarcene”.

“Se ce ne andiamo via noi, questa gente come fa a celebrare il Natale?” chiede la Madonna. “Il Natale siamo noi”.

Tutti gli altri si alzano in piedi.

DARIO – E la morale della favola?

JEAN CLAUDE – La morale è che noi siamo il frutto di tutto quello che il mondo ha fatto. Tutti dipendiamo dalla cultura e dal lavoro degli altri. E’ una morale semplice ma molti ancora non riescono a capirla.

DARIO – O piuttosto non vogliono capirla.

AIDA (Rivolta a Jean Claude) E’ una bella favola, la tua. Noi non potevamo festeggiare il Natale e neppure la Pasqua. Gesù Bambino era proibito, era considerato un pericoloso revisionista, nemico del popolo. Nel ‘67 l’Albania ha conquistato il primato di unico paese ateo al mondo, nel ’76 il principio è stato addirittura sancito dalla Costituzione…

MARIANA – Noi moldavi siamo ortodossi, in Italia possiamo festeggiare la Pasqua solo una volta ogni quattro anni, quando coincide con la vostra. Le altre tre Pasque andiamo a lavorare, come sempre.

DARIO – E perché andate a lavorare? Pasqua non capita sempre di domenica? Chi lavora di domenica? I cinesi…

MARIANA – La nostra è una Pasqua più lunga, iniziamo il sabato e festeggiamo fino al martedì compreso.

DANUTA – Da noi in Polonia a Natale mettiamo della paglia sulla tavola per ricordarci che Gesù è nato in una stalla, apparecchiamo un coperto in più per un ospite inaspettato e digiuniamo tutto il giorno per il rito della cena che prevede dodici portate…

DARIO – Però… E perché proprio dodici?

DANUTA – Dodici come gli apostoli o come i mesi dell’anno. Decidi tu…

HODAN – Noi somali non facciamo festa a Natale o a Pasqua, siamo musulmani sunniti, però digiuniamo lo stesso e non solo durante il ramadan…

DARIO – E’ la fame che vi spinge a venire in Europa?

HODAN – Non è solo la fame ma anche la guerra, le malattie, la vita che non vale niente… Sono queste le ragioni della fuga.

Quando qualche amico mi telefona dalla Somalia e mi dice che vuole venire in Italia io cerco di convincerlo a non partire. “Il viaggio per mare è pericoloso. Si rischia la morte”. La risposta è sempre: “Meglio la morte piuttosto che la vita in Somalia”.

DARIO – Sembra che per perseguitarvi siano scesi in campo i quattro cavalieri dell’Apocalisse di Giovanni.

“Fu dato loro potere sopra la terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste, con la morte”.

Proiezione sul fondale di una carta geografica dell’Africa con indicato il percorso dalla Somalia alla Libia. In alternanza immagini del deserto.

HODAN – Per arrivare in Italia dalla Somalia si deve attraversare l’Etiopia, il Sudan, il Sahara, la Libia… Come ha fatto la mia amica Muna. Doveva venire anche lei in scena con noi, ma non ce l’ha fatta. Ha avuto pudore delle proprie sofferenze.

Il suo viaggio attraverso il deserto è durato dieci giorni, era con altre trenta persone. Dopo cinque giorni sono finiti il cibo e l’acqua. Per sopravvivere era costretta a bere la propria urina, e se non bastava comprava quella di qualcun altro.

Il peggio è passare la notte. Si aspetta che qualcuno si addormenti per portargli via il cibo. Sopravvive chi possiede almeno un coltello. Alcuni muoiono durante il viaggio. Si muore uccisi dalla fame, uccisi persino dai compagni, o dai predoni del deserto che ti tagliano la pancia per vedere se hai inghiottito dei soldi per nasconderli.

Un proverbio somalo dice: “Le scarpe di un morto sono più utili di lui”.

Quando Muna e gli altri sopravvissuti hanno passato il confine con la Libia le guardie di frontiera li hanno accolti a fucilate.

E’ il loro modo di dare il benvenuto ai profughi.

Ai sopravvissuti le guardie chiedevano il passaporto. Nessuno l’aveva. Chi ti dà il passaporto in uno stato che non esiste più come la Somalia?

DARIO – I dollari possono sostituire i documenti?

HODAN – In Libia sì. Muna non li aveva ed è finita nelle carceri libiche. Per cinque mesi. Finché i suoi parenti hanno fatto una colletta e le hanno mandato la cifra del riscatto: 800 dollari. Non è facile raccogliere 800 dollari in Somalia.

DARIO – Come sono le carceri libiche?

HODAN – Chi non ha da pagare il riscatto ci può restare per anni. Ci può morire, per i maltrattamenti, per la fame. Molte donne vengono violentate.

Muna e altre prigioniere somale hanno rischiato di morire di fame a causa delle nigeriane, più grosse e più forti delle somale, rubavano il poco cibo.

I poliziotti e i funzionari libici che mettono i profughi in galera sono gli stessi che per soldi procurano l’imbarco per l’Italia. Muna ha dovuto pagare ancora per arrivare a Lampedusa.

DARIO – E la tua amica ha finalmente terminato la sua odissea?

HODAN – No. Finirà solo quando potrà riabbracciare i suoi figli, che sono ancora in Somalia con la nonna. Per la legge italiana devono dimostrare con l’esame del Dna di essere proprio figli di Muna. Non basta, non può farli arrivare finché lei vive al campo profughi. Intanto lavora in una ditta di pulizie e ha ottenuto il riconoscimento di rifugiata politica.

DARIO (Rivolto a Gaston) Anche tu hai ottenuto lo status di rifugiato politico?

GASTON – Anch’io ho lo status di rifugiato politico, ma proprio per questo non posso più tornare in Camerun.

DARIO – E in Italia che cosa fai?

GASTON – Lavoro in un centro di accoglienza per immigrati, li aiuto a inserirsi, a trovare un lavoro. Li ascolto e i loro racconti fanno rivivere la mia storia.

Adesso mi occupo di Mohammed, viene dal Maghreb e non ha documenti. In Europa lo rimandano da un paese all’altro, come la pallina di un flipper. Adesso è in Italia, senza documenti. Si è finto pazzo per essere ricoverato ed avere almeno una cartella clinica che dimostri che lui esiste.

Cartesio diceva: “Cogito ergo sum”. Il povero Mohammed invece deve dire: “Non cogito ergo sum”, non ragiono dunque esisto.

DARIO (Rivolto ad Aida) E tu di cosa ti occupi?

AIDA – Mio padre mi ha raggiunto in Italia, voleva riportarmi a casa. Mi sono impuntata: “In Albania morta sì ma viva no”. Sono frasi che si dicono a diciott’anni. Anche mia madre è stata irremovibile: “Dobbiamo stare dove c’è la felicità delle nostre figlie”. Mio padre era dirigente di una grande industria, per stare vicino alla famiglia si è adattato a fare l’operaio.

DARIO – Lui l’operaio, e tu?

AIDA – Sono una sceneggiatrice precaria, ma comunque mi rendo conto di essere una privilegiata.

DARIO – Il presidente Berlusconi ha chiesto al vostro premier un maggior controllo sulle immigrazioni dall’Albania. “Possiamo fare un’eccezione solo per chi porta belle ragazze”.

AIDA – Berlusconi ha un fine senso dell’umorismo…

DARIO – Già. Molte di quelle “belle ragazze” un lavoro in Italia lo trovano certamente. Sulla strada.

MARIANA Neanch’io faccio il lavoro per cui mi sono laureata. Sono un ingegnere, mi sarebbe piaciuto fare la maestra. In Italia faccio le pulizie. Ho lavorato come badante, come cameriera, come baby-sitter. L’italiano l’ho imparato dai bambini che accompagnavo a scuola.

Ricordo il mio primo lavoro presso una famiglia. Siamo in Italia, non nel deserto del Sahara, eppure per mangiare ho dovuto rubare una mela, per prendere un po’ d’aria dovevo uscire di nascosto.

La signora non mi dava da mangiare ma in compenso voleva che indossassi il camice di raso nero, il grembiulino bianco con i pizzi, in testa la crestina. Ero talmente dimagrita che dentro quella divisa ci potevano stare due Mariane.

Dopo giorni interi senza neppure un biscotto, la cuoca filippina mi ha dato del cibo. Gli avanzi. La signora mi ha visto mentre mangiavo e mi ha chiesto: “Ma anche tu mangi con il coltello e la forchetta! Dove hai imparato?”.

Alla fine del mese mi sono licenziata. Le sue bambine piangevano, mi volevano molto bene. La signora mi ha detto: “Meglio così, non sei adatta per questo lavoro”.

DARIO – E tu cosa le hai risposto?

MARIANA – Che sono adatta a lavorare in un ufficio, da dirigente. Come lei.

Un’altra signora a cui mi sono presentata per un lavoro mi ha chiesto quanti minuti impiego per stirare una camicia…

DARIO – E quanti minuti ci vogliono per stirare una camicia?

MARIANA – Dipende dalla camicia. E dal ferro.

DARIO – Il lavoro… Per gli immigrati la perdita del lavoro è doppiamente tragica, perché condanna alla clandestinità, al ritorno forzato in patria o al carcere.

Vi hanno messi tutti in regola con i contributi?

DANUTA – Io lavoro in nero…

DARIO – Perché non denunci quello sfruttatore?

DANUTA – Perché è mio marito.

Ma no, scherzo, l’aiuto ogni tanto. Mio marito era un fabbro. Abbiamo lavorato tanti, tanti anni in Italia. Oggi, a forza di sacrifici, ci siamo fatti una piccola fabbrica d’infissi in alluminio che dà lavoro anche a qualche italiano.

DARIO (Rivolto a Joselito) Tu sei riuscito a fare il pittore, come volevi?

JOSELITO – Sì, faccio ritratti ai miei connazionali, ma anche agli italiani. Ne vuoi uno anche tu?

DARIO – Perché no?

JOSELITO – Hai deciso per il meglio. Mettiti in posa…

Dario si siede sul divano a forma di penisola. Joselito lo aiuta a trovare la posa.

JOSELITO – Ecco, così… Preferisci che ti dipinga con un’espressione felice, triste, severa?… La spesa è uguale.

A me vengono bene le facce allegre. Forse perché anch’io sono allegro di natura.

Apre il suo album e inizia a disegnare, mentre gli altri migranti dietro le sue spalle lo guardano e commentano tra loro.

DARIO – Chi ti ha insegnato a disegnare, a dipingere?

JOSELITO – Il pittore Guido Assirelli è stato il mio maestro…

DARIO – E chi è?

JOSELITO – Non lo conosci? E’ famoso nelle Filippine. Il suo nome me l’aveva consigliato un amico. Appena sono arrivato a Roma per prima cosa gli ho telefonato per fissare un appuntamento, volevo iniziare subito le lezioni.

Quando il giorno dopo mi ha aperto la porta del suo studio sono rimasto un po’ deluso, un artista importante come lui lo immaginavo alto, magro, con i capelli lunghi e bianchi, lo sguardo penetrante, l’espressione tormentata. Forse pensavo ai ritratti di Leonardo. Invece era un ometto calvo, basso e grassottello. Pazienza. In compenso era un bravo maestro. Si capiva la sua bravura anche perché aveva le dita sempre sporche di vernice. Mi sembrava giusto che la materia prima di un pittore gli segnasse le mani. Come ai santi le stigmate.

DARIO – La prospettiva, studia la prospettiva!

JOSELITO – Proprio così! Questo è stato il primo insegnamento del mio maestro.

DARIO Voi orientali non conoscete la prospettiva, dipingete tutte le cose come viste dall’alto, a volo d’uccello, ma noi siamo uomini, non siamo dei volatili. Perché dovremmo raffigurare l’universo come se fossimo dei tordi o dei pipistrelli? L’abbiamo inventata noi italiani, la prospettiva. Paolo Uccello, Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Leonardo…

JOSELITO – “Copia i grandi maestri!” mi diceva sempre. “Nell’arte è giusto copiare. Solo nell’arte e solo i grandi” mi diceva.

DARIO – E tu copiavi?

JOSELITO – E io copiavo, certo, lo faccio ancora oggi e ne sono felice. Vado nei musei, mi scelgo il quadro che quel giorno mi piace di più, sistemo il cavalletto, fisso la tela, preparo i colori.

DARIO – Ma lo chiedi ai musei il permesso di copiare?

JOSELITO – Certo che lo chiedo. Sono un artista, io. Mica faccio il falsario.

Prima di iniziare l’abbozzo studio a lungo il quadro che ho scelto. L’opera di un grande artista è come una bella donna capricciosa che si vuole conquistare. Bisogna corteggiarla, capirne il carattere, il temperamento. Solo allora ci si può permettere di copiarla. Prima devi conoscere la sua vera anima.

Ci sono quadri severi, che non danno confidenza. Ci sono tele che hanno la vocazione a sedurre, sono come delle puttane che si offrono a chi le guarda. Altre si danno delle arie, vogliono solo essere ammirate. Altre ancora sono gentili, amorevoli come madri. Vogliono rassicurare con la dolcezza di un sorriso, rasserenare con la felicità dei colori di un paesaggio…

DARIO – Ti ha insegnato solo a copiare, il tuo maestro?

JOSELITO – No, certo. Seguivo anche le sue lezioni di disegno dal vero. Nature morte, per esempio. Il maestro metteva su un tavolo una coppa piena di frutta e noi dovevamo riprodurla.

DARIO – I fiamminghi, pensate alle meraviglie che hanno realizzato i fiamminghi dipingendo solo fiori e frutta!

JOSELITO – Io mi ricordo che pensavo soprattutto a come mi sarebbe piaciuto mangiarla, quella frutta. Per pagarmi le lezioni non avevo mai una lira e soffrivo la fame. Una volta l’ho confessato ad Assirelli nella speranza che mi facesse uno sconto. Niente da fare.

DARIO – Bene! La fame è un’ottima maestra, affina la sensibilità dell’artista. Non si dipinge bene con la pancia piena. Continua così. Tutti i grandi artisti hanno sofferto la fame.

JOSELITO – Allora io sono un grandissimo artista. E poi c’erano le lezioni di nudo…

DARIO – Con le modelle nude?

JOSELITO – Certo.

DARIO – Mi dai l’indirizzo dello studio di Assirelli?

JOSELITO – A ripensarci la modella non era un granché, aveva anche un po’ di cellulite nelle gambe eppure io ero tutto eccitato quando c’era lezione di nudo… Era la prima volta che vedevo così da vicino una donna sconosciuta tutta nuda. Sai, le Filippine sono un paese molto cattolico…

DARIO – E sei poi riuscito a mantenerti con il tuo lavoro di pittore?

JOSELITO – Io sono venuto in Italia proprio per imparare l’arte… Ma, come dite voi, qualche volta ho dovuto metterla da parte. Ho fatto tanti altri lavori per pagarmi le lezioni. Ma sono felice lo stesso. Adesso faccio l’assicuratore. Sono un grandissimo assicuratore… Posso farti una polizza?

Joselito ha finito il ritratto, lo mostra a Dario e al pubblico.

DARIO (Prende il foglio) Grazie. Mi hai fatto anche più bello di quel che sono…

JOSELITO – Fanno cento euro…

DARIO (Lo paga) Se questo spettacolo farà una lunga tournée mi dovrai fare uno sconto. Tutte le sere cento euro…

JOSELITO – La bellezza non ha prezzo ma il lavoro dell’artista sì.

HODAN – (Rivolta a Joselito) Hai dei tempi comici notevoli. Dovresti fare l’attore. Se t’interessa io ho un’agenzia di casting, solo per stranieri, per gli italiani ce ne sono già tante.

DARIO (Rivolto a Hodan) Parli perfettamente la nostra lingua. E’ da molto che sei in Italia?

HODAN – Sono qui da vent’anni. Ma l’italiano l’ho studiato in Somalia, ex colonia italiana.

Il mio viaggio non è certo stato drammatico come quello di Muna. Era facile prevedere che con la caduta di Siad Barre sarebbe scoppiata la guerra civile.

L’inferno! A Mogadiscio, nella capitale, qualcuno – Dio sa chi – aprì le celle del carcere, le porte dei manicomi, i cancelli dello zoo. Tutto insieme!

D’improvviso arrivò la libertà per uomini e animali, per matti e delinquenti, e tutti scappavano. Correvano i saccheggiatori e le famiglie dei ricchi fuggivano terrorizzate. C’erano migliaia di prigionieri politici e criminali comuni e assassini a decine di migliaia mescolati a leoni, zebre, iene, cammelli, serpenti, uccelli del paradiso…

Tutti inseguivano o erano inseguiti. Tutti in fuga.

Mio marito era l’addetto culturale italiano, siamo riusciti a prendere un aereo e siamo venuti in Italia.

Ho fatto la modella per quindici anni, ho lavorato a lungo per i vostri stilisti in giro per il mondo.

DANUTA – Sei di religione islamica, niente velo per te?

HODAN – Niente velo. Anche se in Somalia ormai le donne portano il burka e i musulmani sono il 99,9 per cento della popolazione. Da noi la cultura era matriarcale, noi dicevamo: “Nel mondo arabo la donna cammina dietro l’uomo, in Somalia è la donna che cammina davanti al cammello”.

La donna era il capofamiglia, a lei era affidata l’istruzione dei figli e la trasmissione del sapere. Le donne e gli anziani erano la nostra scuola di vita, la nostra università. E’ solo dal 1972 che esiste una lingua somala scritta, prima per scrivere usavamo l’arabo e la nostra era una cultura solo orale. Per questo ai somali viene naturale parlare per metafore e in poesia.

Siamo un popolo omogeneo, siamo molto solidali tra noi. Si dice che i somali vivono con i somali e commerciano con il mondo. Non è più così dai tempi della guerra civile che ha provocato la nostra diaspora.

(Recita versi in somalo, che poi traduce)

Siamo una collana di perle che è stata recisa,

le perle sono rimbalzate da tutte le parti.

Sono versi di Cristina Alì Farah, una poetessa somala che è “rimbalzata” in Italia, dove vive.

MARIANA – Le perle che rimbalzano bisogna raccoglierle, se no rischiano di restare schiacciate o di andare perdute.

Mia madre diceva che quando una donna decide di fermarsi in un posto non basta che abbia una casa, un marito, dei figli. Se può, deve anche piantare un albero.

DARIO – Perché proprio un albero?

MARIANA – Perché vuol dire che si mettono le radici…

DARIO – E tu quale albero vuoi piantare?

MARIANA – Un ciliegio, come quelli di casa mia…

DANUTA – In Polonia diciamo che è l’uomo maschio che deve costruire la casa, fare un figlio maschio e piantare un albero.

MARIANA – Io però quell’albero non l’ho ancora piantato. E dove potrei piantarlo? Mi sento straniera qui in Italia. Ma quando torno in Moldavia anche là mi sento un’estranea.

DANUTA (Apre la sua valigia e prende un computer portatile, lo apre) Quando mi sento estranea, io vado al computer e navigo. Faccio lunghi viaggi con Google Earth. Come se fossi su un’astronave, dall’alto vedo continenti, oceani. Scopro paesi che non conosco. I miei viaggi vanno sempre nella stessa direzione. Mi avvicino alla Polonia, vedo Varsavia dove ho studiato al liceo, vedo un palazzo, una piazza che mi ricorda i miei primi amori… ci abitava un mio compagno di scuola. C’era anche un negozio di parrucchiere, proprio lì ho fatto la mia prima permanente. Allo specchio mi sono vista bruttissima, con i capelli bruciati, tagliati a pecorella, ma a Tomasz piacevo uguale.

Questo ponte mi ricorda i carri armati nel silenzio della notte, quel frastuono! I soldati si scaldavano ai fuochi accesi ai lati delle strade. Avevo quindici anni…

DARIO – Eravate in guerra?

DANUTA – Il nostro esercito era mobilitato. I russi erano al confine, a loro non piaceva Solidarnosc, il paese era sull’orlo della bancarotta e il generale Jaruzelski aveva fatto un colpo di Stato, per salvare la Polonia, almeno così diceva…

Il mio viaggio si conclude a Sniadowo. Il mio paese ha un suo sito su Internet, così dal mio salotto posso vedere la mia casa, la scuola elementare, la chiesa, dove mio padre non poteva entrare.

DARIO – E perché?

DANUTA – Era un poliziotto e ai poliziotti il regime proibiva di frequentare le chiese.

MARIANA – Noi stranieri veniamo in Italia perché abbiamo bisogno, ma anche voi italiani avete bisogno di noi. Ci affidate quel che avete di più prezioso: i vostri nonni e i vostri bambini.

I miei due figli li ho dovuti lasciare appena nati a mia madre per venire qui. Sono tornata a casa dopo quattro anni, per rivederli, e non mi hanno riconosciuto. “Tu non sei la nostra mamma” mi hanno detto. “Non ti vogliamo”.

DARIO – E tu che hai fatto?

MARIANA – Ho pianto, che altro potevo fare? Ero disperata. Sono andata a dormire e nel dormiveglia ho sentito la porta della stanza aprirsi, ho fatto finta di dormire. Erano loro. Si sono avvicinati al letto e mi hanno guardato nella poca luce. Il più grande aveva in mano una mia foto, quella bella, che c’era in salotto.

“Ci siamo sbagliati” ha detto. “E’ proprio lei, è la nostra mamma Vedi che anche lei ha questo neo?”. E con il ditino mi ha toccato il neo che ho qui… (Lo indica).

DANUTA (Fa una carezza a Mariana) I miei figli per fortuna vivono con me e con il padre. Sono nati in Italia: parlano, pensano, sognano in italiano. Come italiani. Ma parlano, pensano, sognano anche in polacco. Come polacchi. Sono la seconda generazione di immigrati, italiani ma con le radici in un’altra terra. Sono italiani o stranieri?

Nel quartiere dove abito, a Roma, ci sono molti cinesi…

DARIO – Anche nel mio. Sono dappertutto.

DANUTA – L’altro giorno, per strada una madre cinese arrabbiatissima rimproverava il suo giovane figlio cinese urlando… (La imita) “Chang ching deng tsiao ping pong tung chung”…

A un certo punto il ragazzo, che non ne poteva più, le ha dato un’occhiataccia con i suoi occhi a mandorla (con le dita si tira le palpebre per farsi gli occhi a mandorla), si è voltato e le ha detto: “’A ma’ ma quanno la finisci de rompe’ er cazzo?”.

DARIO – In certe scuole succede ancora che bambini, nati in Italia ma con altre radici, vengono separati dai bambini che hanno nome e cognome italiano. Che senso ha?

JEAN CLAUDE – Io credo che la poesia sia il linguaggio giusto per parlare ai bambini di tutti i colori. La poesia è una delle forme espressive che parte dalla pancia e arriva all’anima. Attraversa lo spazio, il tempo degli uomini e delle cose senza bisogno del permesso di soggiorno. E’ il mezzo più adatto per sconfiggere il razzismo.

Quando uno straniero è ancora un bambino, è un angelo, gli si accarezza la testa. Quando cresce diventa un extracomunitario, da tenere alla larga. I bambini non hanno ancora assorbito i nostri pregiudizi, sta a noi impedire che siano infettati dal virus del razzismo.

DARIO – D’accordo, ma esiste un vaccino per evitare il contagio?

JEAN CLAUDE – La verità. Ai bambini bisogna dire la verità. Devono sapere che la pace, il benessere di cui godono adesso è frutto di una, di tante sofferenze, di uno sforzo di tutti i popoli. Non soltanto degli italiani.

Gli italiani hanno creato tante cose, come le opere degli artisti che l’amico Joselito è venuto in Italia a studiare, ma non tutto. Ogni bambino italiano che va a scuola è un mondo in cammino. Perché la camicia che indossa è fatta con il cotone del Mali e confezionata dalle mani di un cinese, anche se l’ha disegnata uno stilista italiano. Ai piedi porta delle scarpe da ginnastica confezionate in Vietnam con la gomma che viene dall’Indonesia. Sul suo zainetto ci sono i personaggi dei cartoni animati giapponesi che guarda nel televisore fabbricato a Hong Kong. Il papà lo porta a scuola su una macchina che forse arriva dalla Corea e per il suo compleanno gli ha regalato una bicicletta fabbricata a Mondovì…

Nessun paese al mondo ha il monopolio della luna, del sole, dell’acqua, della natura, dell’intelligenza, della stupidità, della bellezza o della bruttezza. Dipendiamo gli uni dagli altri, volere o no. Anche se qualcuno fa il furbo…

GASTON – Voi italiani… Noi italiani facciamo pochi figli. Molti degli italiani di domani si chiameranno Mohamed, Kalinowski, Chang, Yusuf, Lopez, Alì, Khan, Hassan, Bandaranaike, Voronin… O Biwole, come me e come i miei figli.

DARIO – Saranno a tutti gli effetti “fratelli d’Italia” come si canta nel nostro inno, o saranno piuttosto “fratelli d’Italia?” con un grosso punto interrogativo? Saranno fratelli o fratellastri d’Italia? E quando potremo davvero sostituire il punto interrogativo con un punto esclamativo?

Ogni migrante prende dalla propria valigia e lo indossa un capo di vestiario tipico del suo paese: un cappello, uno scialle, un velo, una sciarpa, una giacca, una gonna, un grembiule, un gilè, ecc.

Ognuno canta una strofa di “Fratelli d’Italia” nella propria lingua.

JOSELITO – (Canta in pilipino) Fratelli d’Italia, / l’Italia s’è desta,

GASTON – (Canta in bantu) Dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa.

HODAN (Canta in somalo) Dov’è la Vittoria? / Le porga la chioma,

AIDA (Canta in albanese) Ché schiava di Roma / Iddio la creò.

MARIANA – (Canta in moldavo) Fratelli d’Italia / l’Italia s’è desta,

JEAN CLAUDE – (Canta in swahili) Dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa.

DANUTA – (Canta in polacco) Dov’è la Vittoria? / Le porga la chioma, / ché schiava di Roma / Iddio la creò.

TUTTI – (Cantano in italiano) Stringiamci a coorte! / Siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte / l’Italia chiamò.

Stringiamci a coorte! / Siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte / l’Italia chiamò.

Sì!

Buio.

FINE

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