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TRIANGLE OF SADNESS, FAVOLA GROTTESCA SULLA SOCIETÀ DEI RICCHI IN BALIA DELLE ONDE SENZA BILANCIAMENTO

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“Il triangolo della tristezza” è una particolare alterazione della pelle che si mostra nella parte superiore del naso, tra i due sopraccigli, quando a causa di preoccupazioni e troppa concentrazione si tende a inarcarli e corrucciarli; in Svezia la chiamano anche “ruga dei guai”: più ne hai più diventa marcata. Potrebbe essere anche la ruga dello stupore, perché sicuramente si è formata a chi vi scrive e immagino a molti spettatori durante la visione di Triangle of Sadness, il nuovo film di Ruben Östlund, premiato con la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes: e mi riferisco in particolar modo ad alcune scene emblematiche e veramente fuori dalle righe e dagli schemi, eccedenti sotto molti punti di vista, non di meno per una rappresentazione ostentata della bruttezza.

I personaggi che ricorrono in tutte e tre le parti di cui si costituisce il film sono due fidanzati, Carl e Yaya, giovani modelli e influencer: la prima cosa che veniamo a conoscere di loro è un litigio intorno ad una questione di soldi, di chi debba pagare il conto di una cena in un ristorante; la seconda è una discussione sull’apparenza, cioè sullo stare insieme per convenienza e per ingrassare il numero dei followers. I due, nel secondo atto, il più corposo del film, partecipano ad una crociera e qui entrano in scena altri personaggi, persone ricchissime, che gravitano intorno ai due protagonisti e quindi iniziano a definirsi all’interno del racconto soprattutto per le loro stranezze, i loro vizi e le alzate di ingegno. La loro inadeguatezza.

Triangle of Sadness è una favola grottesca e satirica, toni ironici e sguardi giudicanti permeano ogni situazione e scena dove vengono ridicolizzati i ruoli sociali, gli stereotipi, i bisogni superficiali di una precisa classe sociale, attraverso una realtà stirata allo stremo oltre ogni equilibrio per approdare nel terreno dell’esagerazione, dell’iperbole: l’opera di Östlund ama sconfinare con volontà precisa e con estremo piacere nel terreno della sproporzione, della sottolineatura, in un processo continuamente amplificatorio, anche nelle scene di dettaglio, meno portanti da un punto di vista narrativo. Questo è sia il pregio che il grande limite del film: il pregio perché appunto in scene più marginali, di dialogo (penso, per esempio, al cameriere che assiste alla conversazione dei due ragazzi), le punte di ironia e imbarazzo sono in perfetto bilanciamento con la verosimiglianza della situazione narrata, diventano stilettate efficaci nel descrivere sia il microcosmo di quel mondo della moda, o di quello yacht o di quell’isola, e di riflesso un macrocosmo che è il mondo in cui viviamo, sempre più improntato, appunto, sulla ricchezza e la celebrazione dell’apparenza come valori; è un limite, però, proprio perché nelle grandi scene o sequenze l’equilibrio vacilla e viene a mancare, l’umorismo nero che ha caratterizzato da sempre le migliori commedia della Storia del Cinema non riesce ad incidere come avrebbe voluto, diluendosi in rappresentazioni fin troppo estetizzanti e contenuti scontati. Infatti, in questo terreno dell’esagerazione forzata e compiaciuta dove ama stare il film, i discorsi e le descrizioni dei costrutti e delle convenzioni sociali sono condotti in maniera banale: che anche i ricchi vomitino, o che se ne escano con richieste assurde e da bambini viziati, o che siano pigri e incapaci ad accendere un fuoco, o che se messi in un contesto dove i soldi non contino si trovino spaesati e si riducano ad essere né più né meno come tutti gli altri, o che i poveri, d’altro canto, ambiscano a diventare ricchi, quindi a detenere il potere e di conseguenza a trasformarsi come loro, son tutte cose che già sappiamo o delle quali, se ci vengono dette con questa costruzione elementare, simpatica ma così estremamente facile, non avvertiamo la necessità di sapere, l’urgenza.

Alla fine di Triangle of Sadness ci si chiede: quindi? Cosa ci ha offerto in più? O di diverso? E sono un po’ le medesime domande che, purtroppo, chi vi scrive si è posto al termine di ogni altro film del regista svedese.

Simone Santi Amantini

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