Al Teatro Vittoria di Roma, fino al 29 gennaio 2023
Tra qualche giorno, precisamente venerdì 27 , sarà la “giornata della memoria” e tutti i giornali ne stanno parlando con ampia documentazione di ricerca, mentre la televisione sta mandando in onda “ speciali dei telegiornali” e “dossier” con la testimonianza puntuale e storica di coloro che sono “sopravvissuti”, anche se ormai ne sono rimasti pochi, andando nelle scuole ad arricchire le lezioni e la preparazione storiografica degli studenti delle Superiori. In codesta ottica si sono opportunamente inseriti anche alcuni teatri con dei testi scelti per l’occasione, tra questi quello di Didier Caron tradotto da Carlo Greco” Nota Stonata” in scena in questo periodo al Vittoria in Testaccio. Si tratta d’un copione fitto ed avvincente per due straordinari interpreti che si confrontano con un serrato dialogo su dei loro rapporti risalenti alla seconda guerra mondiale, che l’ ha visti fronteggiarsi su due diverse posizioni che li tormentano come gli “ spettri “ di Ibsen relegati nella loro mente e che nessuno dei due ha potuto dimenticare, pur cercando di darsi un’altra personalità. La molla del ricordo scatta quando agli inizi degli anni novanta del secolo scorso il rinomato direttore d’orchestra Hans Peter Miller tiene un concerto non del tutto riuscito a Ginevra per la poca concentrazione dei musicisti e, mentre sta tentando di placarsi con un appuntamento di riflessione alla sua orchestra, nel suo camerino irrompe un presunto suo stregato ammiratore, che sostiene d’essere il Direttore del Museo Archeologico di Liegi dove l’ha apprezzato pienamente con la moglie Annah, riconoscendo però nel movimento della mano destra un inquietante precedente. L’invadente e petulante, logorroico nei suoi convenevoli compiacenti, visitatore afferma di chiamarsi Leo Dinkel e s’intuisce che la sua comparsa, pur se in teatro è consuetudine d’uso andare nel dopo spettacolo a complimentarsi con gli attori da parte d’amici e colleghi, ha motivi più profondi rispetto a questa lusinghevole apparizione. Le sue ripetute entrate ed uscite sembrano puntare ad irretire ed irritare, sconvolgere, Miller che è entusiasta della promozione a direttore della Filarmonica di Berlino e desidera che la famiglia condivida questa sua gioia. Dinkel dimostra già dalle prime battute di sapere parecchio sul musicista e lo conosce pure la moglie restata a Bruxelles, per la quale si fa firmare un autografo con un’esplicita didascalia per l’indimenticabile serata. I due s’avvinghiano sempre più in un gioco di schermaglie retoriche e scavo di memoria volontaria sulla loro reciproca identità veritiera, dicendo Dinkel, cui Giuseppe Pambieri conferisce un notevole e fiero spessore d’investigatore intemerato che , chiaramente, ha un obiettivo da raggiungere, che in realtà s’è accorciato il cognome che prima era Dinkelbach e sollecita così abilmente il coscienzioso risveglio del suo interlocutore con una serie di cimeli che dovrebbero portarlo sulla strada giusta : una foto tragica, un carteggio ed una fatidica divisa grigia a strisce con il numero impresso. Ci troviamo in una gabbia dato che Dinkelbach ha staccato il filo del telefono e serrata la porta del camerino intascando la chiave . Per quale causa questa progressiva reclusione e stanza della tortura dialettica, cui Miller vorrebbe sottrarsi avvertendo che sotto di sé si sta aprendo un baratro, in cui egli rischia di sprofondare nella struggente immedesimazione dello stesso traduttore Carlo Greco. In realtà chi è Miller e che cosa Dinkel vuole da lui “giocando a gatto con il topo”? Che cosa li divide e dietro la maschera dell’apparire un “supporter” del conclamato direttore e dello stesso maestro da podio, che guida l’orchestra con sole mani, chi ci sono? La platea non afferra subito l’allusa ricostruzione storica da ben decodificare, ma basterà una grigia foto dall’orribile visione e la proiezione d’immagini in bianco e nero sullo sfondo con la tecnica dell’integrazione video dello spettacolo per illustrare rievocativamente il passato intercorso tra i due. Si nota un piede sulla testa d’un cadavere che giace nel fango e questi chi è nel terapeutico ricorso alla dettagliata cornice della vicenda legata agli anni quaranta durante il secondo conflitto mondiale? Era il padre di Leo suonatore di violino nell’orchestrina davanti al campo di Bukenvald dove lavorava quale gerarca ed appassionato di musica il padre di Peter Gerde, autentico nome del Direttore che a quel tempo dipendeva totalmente dal genitore suo ideale riferimento, che l’aveva fatto iscrivere alla gioventù nazista paragonabile a quella del littorio. Egli sostiene che il padre d l’aveva costretto ad uccidere il genitore dell’altro per la nota stonata del titolo nel suonare la musica di Mozart che, essendo stata l’Austria assorbita dalla Germania, veniva reputato tedesco e dunque quello sbaglio era di disdoro e disonore per gli Alemanni. Ormai Miller è stato smascherato con il suo tentativo di rifarsi una reputazione assumendo il cognome ed i natali a Lipsia d’una vittima senza parenti rimasti in vita, come pirandellianamente Mattia Pascal era divenuto con pari stratagemma Adriano Meis prima della seduta spiritica con la “ medium “ a Roma dov’era in affitto. Dinkelbach adesso tira fuori una pistola e lo distrugge psichicamente, spingendolo a venir meno dalla paura e con una reazione fisica prevedibile in simili frangenti, facilmente intuibile per la minaccia di saldare il fio della sua colpa con l’analoga fine spietata del Dinkelbach padre, al cui onore l’orgoglioso direttore deve suona bene il violino senza sbagliare nota , altrimenti per la legge dantesca del “contrappasso” deve riservarsi l’analoga sorte dell’ucciso. Logicamente le parti, similmente alla commedia pirandelliana “Il gioco delle parti” oltre alla teoria dell’essere ed apparire nella novella “Così è , se vi pare”, si sono invertite ed in siffatta policromia fonetica d’accenti, stati psichici ed umori, il naturalizzato belga reso da Pambieri lo riprende sull’esecuzione imperfetta e gli lascia sul tavolo l’arma per mostrare eroismo e coraggio nel suicidarsi con un gesto riparatore supremo. Infatti la giustificazione addotta dl non poter comportarsi diversamente è inaccettabile giacché la nostra coscienza è il nostro giudice e deve darci l’ultima parola di fronte ad ordini ingiusti : ribellarci per non essere complici o collusi, in guisa di come Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine venne ritenuto colpevole, malgrado i comandi ricevuti da Kappler fuggito dall’ospedale del Celio, per poi essere graziato per l’età, con la condanna condonata con gli arresti domiciliari a vita nella magione del suo avvocato. Come , per venire all’attualità, si dovrebbero regolare i familiari delle povere ed innocenti vittime dei “padrini” della mafia, camorra, “Sacra Corona Unita” ed “’ndrangheta” che hanno avuto i loro figli, fratelli, congiunti, assassinati dai sicari di Reina, Provenzano, Badalamenti e dagli sgherri del recente ultimo deflagrante arresto di Matteo Messina Denaro? Rammentiamo i casi del piccolo Santino Di Matteo giustiziato da Brusca, che azionò pure il detonatore di Capaci per Falcone e la moglie Morvillo, Peppino Impastato che fustigò alla radio libera del suo paese Cinisi “Tano” per non aggiungere altri eclatanti nomi. Ci penserà la Giustizia di Dio, come ammoniva San Giovanni Paolo II le “ famiglie e le cupole” , oppure devono provvedere gli amici ed i consanguinei. Lo Stato dev’essere di diritto o ciascuno è libero di comportarsi come meglio crede? Spesso sentiamo dire “Non cerco vendetta, tuttavia non posso perdonare” . Può essere la morale privata e pubblica da seguire, la strada idonea, codesta? In un primo tempo come avvio ci sembra di sì, anche se perdonare come Cristo fece con Giuda , vincere il peccato ed il Male con il Bene, è il massimo per un cristiano, specie se cattolico, che questa settimana sta pregando per l’Unità, secondo la volontà di Cristo “Amatevi gli uni gli altri, come Io ho amato Voi. Perdonate Settanta volte sette”. Naturalmente, come si conclude la pièce ed in che modo Dinkelbach si regola con il suo “tempio dello spirito in ognuno di noi” non ve lo diciamo per lasciarvi il gusto di scoprirlo da soli senza perdervi una battuta del metaforico, mica tanto in un frangente, corpo a corpo sul quadrato del camerino. Il testo drammatico è particolarmente indicato come insegnamento dal vivo storico ed etico per le Scuole di II grado, ricordando che Hitler morì suicida con Eva Braun nel Bunker della Cancelleria di Berlino il 30/4/ 1945, con i Tedeschi indotti a fare i conti con la Storia per una catarsi redentrice. Dato il tema scottante trattato, la regia è stata lodevolmente affidata per consigliare ai due meravigliosi attori gli opportuni toni e sguardi frontali, l’esternazione dei propri stati d’animo all’ebreo di Plovdiv Moni Ovadia, che per la prima volta effettua stupendamente la regia d’un testo in prosa. Il lavoro sarà replicato al Vittoria fino a domenica prossima e merita una piena partecipazione sociale e civile della cittadinanza quirite.
Giancarlo Lungarini