“Aureliano in Palmira”, seconda opera al ROF

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Pesaro ROF 2024, 12 agosto 2023

Andata in scena al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre 1813, quale apertura della Stagione di Carnevale, ebbe recensioni controverse della critica del tempo, senza un gran successo ma neppur essere un vero fiasco, contandosi poi quattordici repliche. Il cast di cantanti era dei migliori: il famoso castrato Giovanni Battista Velluti, per cui Rossini aveva scritto il ruolo di Arsace, Lorenza Correa nei panni di Zenobia. Proprio a loro sembra invece attribuirsi il mancato successo giacché il compositore pesarese, conscio del valore, trasporterà parte della musica in Elisabetta, Regina d’Inghilterra. La sinfonia inoltre, sarà definitivamente trasferita al Barbiere di Siviglia, diventando quel celeberrimo brano che tutti conoscono. Aureliano in Palmira, dopo aver goduto di discreta presenza sui palcoscenici fin al 1830, scomparirà dalla memoria prima di essere ripreso in epoca moderna dalla benemerita Opera Giocosa di Savona, nel 1980. Il Rossini Opera Festival mise in scena per la prima volta questo titolo nel 2014, regia di Mario Martone e scene di Sergio Tremonti, spettacolo ripreso in questa stagione. Aureliano aveva il timbro non particolarmente accattivante di Alexey Tatarintsev, una voce di tenore che nello spazio dell’Arena Vitrifrigo si percepiva come velata. In Cara patria! Pur suona e corre, esegue smorzature ma spesso sbiancate, non risolve morbidamente gli acuti di cui l’aria è disseminata. La sua coloratura non è sempre irreprensibile e precisa, cosi come in Se libertà t’è cara risulta non rifinita e la voce non è un “fulmine di guerra”.  Nel successivo duetto Pensa che festi a Roma (cui risponde Arsace con Roma rammenti ancora) spinge sugli acuti, non sempre squillanti e soprattutto non è mai originale fraseggiatore, con accenti corretti quanto generici per tutta l’opera. Al soprano spagnolo Sara Blanch, interprete intelligente, voce che squilla, di discreto volume in questo spazio di Arena che pur riesce a percorrere,  è affidata la parte di Zenobia. Il timbro non è particolarmente penetrante e non scintilla lo smalto. In Ah, soltanto il ciel mostra sicurezza negli acuti e il duetto vede il bel fondersi dei due timbri femminili, senza arrivare però a differenziarsi nei colori. Sicura la vocalità di soprano e contralto, in elegante e sensuale amoreggiar duettando, sempre in nitida e precisa vocalizzazione, così come impeccabile e fascinoso è il prosieguo della lussuosa serie di duetti che costella la partitura. Grande scena e aria Tremar Zenobia – Là pugnai. Sicura tecnicamente, rapidissima la vocalità e raffinate le variazioni, preziosismi disseminati con un gusto innato per la coloratura, è inferiore come intensità interpretativa. La Blanch si sforza in fraseggio imperioso e regale, ma se le riesce facile con il canto lo è meno con l’accento, carente d’impositivo comando e aulica sovranità. In basso la voce difetta di volume e affonda, pur risolvendo con intelligenti intenzioni, ma il tonnellaggio della scrittura vorrebbe più incisività di corpo vocale e non risulta pienamente credibile. Emerge nel duetto con Arsace Va m’abbandona – No, non ti lascio: io moro, dove trova giusta statura e dimensione come donna e amante, pienamente credibile parlando il linguaggio dell’amore. Delizie e finezze vocali a non finire nel duetto, puro godimento nell’estenuata sensualità della coloratura: le due voci ricamano e disegnano arabeschi vocali e trine di cui Rossini imperla la partitura, cifra stilistica di un’estetica belcantistico-musicale ormai al tramonto. In Taci e mia gloria sarà, è struggente nei dolenti accenti. Arsace, parte scritta per castrato, ma il compositore scrive in realtà per il solito contralto cui ha già affidato molte parti, senza altre caratteristiche di scrittura vocale se non quelle di contralto en travesti. Raffaella Lupinacci inizialmente incerta nel calibrare i gravi del suo strumento trova poi, in Se tu m’ami, o mia regina – più lirica che guerresca – l’adeguamento all’ampiezza della sala dell’Arena. In Resta e mi sia partendo in speculare duetto con Zenobia, si slancia di forza sugli acuti, eseguendo buon trillo. Godibile e rapinoso duettare in Eccomi ingiusti dei, con tanto di “messa di voce” e dai sussurrati accenti. Un Chi sa dirmi dolente e toccante, nel variegato fraseggio e dinamica di suoni; vocalizzazione sempre a fini espressivi, raggiungendo un palpabile sconforto. Fonde bene i registri di testa e petto, ottenendo egual sonorità, ove i bassi sono ora più sonori. In Serena i bei rai assistiamo a un lavoro di cesello vocale con Zenobia, cui prende parte anche Aureliano. Perché mai le luci aprimmo è flautato, quasi emesso in sogno e fascinosa è la ripresa dell’aria, in un sussurro di fiati. Non lasciarmi in tal momento rende, in mutata situazione da come conosciamo il brano, la pateticità di cui lo riveste qui il genio rossiniano. Se la tua bella immagine – Mille sospiri e lacrime, duetto con Zenobia, tocca le vette di una delle più struggenti oasi belcantistiche. Gran sacerdote dal timbro scuro ma voce un po’ grezza di Alessandro Abis; in Stava dirà la terra, un po’ parlato il suo canto, e non impeccabile in acuto. Publia è Marta Pluda, modesta in Non mi lagno. Impeccabile e prezioso Oraspe di Sunnyboy Dladla. Licinio dal bel timbro netto di Davide Giangregorio. Insufficiente Elcin Adil come Pastore . Clavicembalo focalizzato in scena a rilevare la presenza forte che ha in partitura, suonato da Hana Lee anche spettator muto della vicenda. Partecipe il Coro Del Teatro Della Fortuna di Fano. Il Direttore George Petrou alla guida dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini,  nella conosciutissima ouverture trova tinte intime, più lirica che drammatica, leggera e pur pregnante in cui si intuiscono in trasparenza bagliori di guerra,  presagi delle future drammatiche tensioni, per arrivare alla trascinante chiusa di debordante conflittualità. Grande attenzione per i dettagli, soprattutto negli accenti e nelle intenzioni, risultando però alla lunga disomogenea nel cambio di carattere, dal marziale al drammatico, dal tragico al patetico, prediligendo una tinta tendente costantemente al lirico, senza spiccato ampleur drammatico. Al sorger di sipario, in scena un labirinto (di passioni?) che ingabbia i personaggi, seguono fascinosi momenti d’immagini oniriche, complice il sagace uso di “velatini” mostrano un sognato onirico oriente; lacerti di mille e una notte e vaghezza persiana nei costumi della Paztak, complice le luci, sempre soffuse a sottolineare i migliori momenti. Ma l’incanto dura poco: questa produzione del 2014, appare datata e polverosa, priva di reale mordente drammatico in questo “peplum” statico e senza punta di ironia, nella statica regia di Mario Martone, scene Sergio Tramonti, costumi Ursula Patzak e luci di Pasquale Mari. Successo caloroso di un pubblico che non gremiva l’Arena Vitrifrigo, con punte di grande entusiasmo per Sara Blanch, Raffaella Lupinacci e il Maestro Petrou.

gF. Previtali Rosti

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